Eva Luna è un romanzo di Isabel Allende, pubblicato nel 1987, una storia d’amore, ma anche un romanzo avventuroso, tante storie che si intersecano una con l’altra, tanti personaggi e paesaggi dell’America Latina sullo sfondo di un paese oppresso dalla dittatura.
“Allora smisi di scrutarmi nello specchio per paragonarmi con le donne perfette del cinema e delle riviste
e decisi che ero bella per il semplice motivo che avevo voglia di esserlo.”
Alcuni missionari trovano una bambina abbandonata e decidono di chiamarla Consuelo. Quando Consuelo diventa troppo grande per stare con i missionari, viene mandata a lavorare come cameriera presso l’abitazione del Professor Jones, un imbalsamatore. Consuelo si appassiona in modo particolare alla lettura prendendo di nascosto i volumi presenti nella fornitissima libreria del professore.
Dopo qualche anno il professore assume un giardiniere indiano, Consuelo si innamora di lui e dalla loro unione nasce una bambina, Eva Luna (il padre apparteneva al popolo della luna), destinata come tanti suoi simili al mestiere di serva. Durante l’infanzia Eva Luna resta particolarmente affascinata dai racconti della madre e vive in bilico una vita tra realtà e fantasia, tra l’amore per la vita ed il bisogno di libertà.
Nasce un’indimenticabile figura di donna nella tradizione del romanzo picaresco spagnolo, una donna cui lo spirito d’iniziativa, insieme a piccoli casi fortunati e inaspettati gesti di solidarietà, consentono di sopravvivere fino a che la realtà si costruisce a misura del desiderio.
Allora non è più necessario inventare un amore eccezionale, basta solo vestirlo a festa perché duri nella memoria e perché ogni storia possa avere un finale felice da raccontare tra le canzoni dell’adolescenza.
Non posso farci niente, sono innamorata della scrittura dell’Allende, trovo questo libro semplicemente splendido, intrigante, scorrevole e poetico.
In una recensione c’era scritto che lei i libri non li scrive, ma li dipinge, confermo questa affermazione.
Mi chiamo Eva, che vuole dire vita, secondo un libro che mia madre consultò per scegliermi il nome. Sono nata nell’ultima stanza di una casa buia e sono cresciuta fra mobili antichi, libri in latino e mummie, ma questo non mi ha resa malinconica, perché sono venuta al mondo con un soffio di foresta nella memoria. Mio padre, un indiano dagli occhi gialli, veniva dal luogo in cui si uniscono cento fiumi, odorava di bosco e non guardava mai direttamente il cielo, perché era cresciuto sotto la cupola degli alberi e la luce gli sembrava indecorosa. Consuelo, mia madre, aveva trascorso l’infanzia in una regione incantata, dove per secoli gli avventurieri hanno cercato la città di oro puro vista dai conquistatori spagnoli allorché si affacciarono sugli abissi della loro ambizione. Quel paesaggio aveva lasciato in lei una traccia che in qualche modo riuscì a trasmettermi.
I missionari raccolsero Consuelo quando non sapeva ancora camminare, era solo una marmocchia nuda e coperta di fango e di escrementi, che era arrivata sgattaiolando lungo il ponte dell’imbarcadero come un minuscolo Giona vomitato da una balena di acqua dolce. Mentre la lavavano, constatarono senz’ombra di dubbio che era femmina, cosa che suscitò in loro una certa confusione, ma ormai c’era e non si poteva buttarla nel fiume, sicché le misero un pannolino per nasconderle le vergogne, le spremettero qualche goccia di limone negli occhi per guarirle l’infezione che le impediva di aprirli e la battezzarono col primo nome femminile che venne loro in mente. La educarono poi senza cercare spiegazioni sulla sua origine e senza troppe ansie, sicuri che se la Divina Provvidenza l’aveva tenuta in vita finché loro non l’avevano trovata, avrebbe continuato a vegliare sulla sua integrità fisica e spirituale, o, nel peggiore dei casi, se la sarebbe portata in cielo insieme ad altri innocenti.
Consuelo crebbe senza un ruolo fisso nella severa gerarchia della Missione. Non era esattamente una domestica, non apparteneva al rango degli indiani della scuola e quando aveva chiesto quale dei sacerdoti era suo padre, si era beccata un ceffone per la sua insolenza. Mi raccontò che era stata abbandonata su una barca alla deriva da un navigatore olandese, ma questa è sicuramente una leggenda che si era inventata in seguito per liberarsi dall’assillo delle mie domande. Credo che in realtà non sapesse nulla dei suoi genitori né di come fosse finita in quel luogo.