La città delle bestie è un romanzo di Isabel Allende pubblicato nel 2002, l’ultima sorpresa una favola sull’armonia possibile tra l’uomo e la natura, il primo libro di una trilogia per ragazzi, dedicata ai nipoti, “Le avventure dell’Aquila e del Giaguaro“, seguito da Il regno del drago d’oro e poi l’ultimo volume La foresta dei pigmei.
“Walimai dice che io non appartengo a nessun luogo, che non sono né india né straniera, né donna né spirito.” “Che cosa sei, allora?” Domandò Giaguaro. “Io sono e basta” rispose lei.
Alex ha quindici anni e vive in California: è un ragazzo come tanti, va a scuola, suona il flauto e ama scalare le montagne.
All’improvviso la madre si ammala gravemente e la famiglia deve riorganizzarsi, Alex viene affidato alla nonna Kate, reporter di professione, in una spedizione nel cuore dell’Amazzonia finanziata dalla prestigiosa rivista “International Geographic”. Bisogna cercare una Bestia mostruosa e gigantesca che, con il suo odore, paralizza chi la incontra e semina il terrore.
Alex si trova così ad affrontare eventi e situazioni eccezionali: dalle banali punture degli insetti, all’incontro con animali feroci e creature magnetiche come il giaguaro.
I componenti della spedizione sono tutti personaggi fuori del comune. C’è il severo professor Leblanc, l’affascinante dottoressa Torres, il taciturno fotografo inglese Timothy Bruce e il suo assistente messicano Gonzalez. Ci sono la guida brasiliana César e sua figlia Nadia, che ha tredici anni, la madre è inglese ma lei è nata nella foresta e si muove in perfetta armonia nella natura selvaggia, conosce molto bene le insidie della foresta e anche i trucchi per cavarsela, capisce gli indios, parla in una strana lingua con lo sciamano Walimai, sa comunicare con gli animali.
Alex invece, deve imparare a sopravvivere in una natura sconosciuta, immensa e insidiosa e con lei si sente più sicuro.
I due ragazzi diventano amici inseparabili, le loro avventure diventano incalzanti, incontrano spiriti e sciamani, scoprono che alcuni membri della spedizione vogliono sterminare gli indios, cadono in balia del Popolo della Nebbia, assumono strani poteri e sensibilità.
Lei diventa Aquila, lui Giaguaro. Riescono a scoprire il mistero della Bestia e a salvare gli indigeni, ma anche a conoscersi meglio. L’atmosfera mescola la percezione magica alla sceneggiatura naturalistica: il fiume, la foresta, la montagna fanno parte di una geografia esatta e insieme straordinaria. La loro esperienza è meravigliosa ma al tempo stesso reale e riflette il cammino interiore di un essere umano. Alex è davvero un ragazzo qualunque e il lettore può provare un fortissimo senso di identificazione. La sua avventura contiene un denso nucleo etico: la lotta contro il male non è solo contro chi vuole distruggere l’Amazzonia. È anche contro una percezione di sé limitata ed egoistica che alimenta debolezze, timori e insicurezze.
Chi vuole sterminare gli indios? Qual è il mistero dell’acqua della vita e delle uova di cristallo? Chi è davvero la Bestia? Uccide per crudeltà o sta tentando di difendere qualcuno? E dove vive il Popolo della Nebbia?
All’alba Alexander Cold fu svegliato di soprassalto da un incubo. Aveva sognato un enorme uccello nero che si schiantava contro la finestra con un fragore di vetri infranti, penetrava in casa e si portava via la mamma. Immobile osservava il gigantesco avvoltoio ghermire la madre per i vestiti con i suoi artigli gialli, volare dalla finestra rotta e perdersi in un cielo carico di densi nuvoloni. Il rumore del vento che sferzava gli alberi, la pioggia sul tetto, lampi e tuoni gli tolsero definitivamente il sonno. Accese la luce con la sensazione di trovarsi su una barca alla deriva e si avvinghiò alla sagoma del cagnone che gli dormiva di fianco. Sapeva che a pochi isolati da casa sua l’Oceano Pacifico mugghiava, infrangendo le sue onde furiose contro la scogliera. Rimase ad ascoltare la tempesta e a pensare all’uccello nero e alla mamma, in attesa che si placassero i rulli di tamburo che sentiva nel petto. Era ancora impigliato nelle immagini di quel brutto sogno.
Guardò l’orologio: le sei e mezzo, ora di alzarsi. Fuori iniziava appena a schiarire. Decise che quella sarebbe stata una giornata orribile, una di quelle giornate in cui era meglio starsene a letto, visto che tanto sarebbe andato tutto storto. A volte, da quando la mamma si era ammalata, l’atmosfera in casa era pesante, come essere in fondo al mare. Allora l’unico sollievo era fuggire, andare a correre sulla spiaggia con Poncho fino a restare senza fiato. Ma non faceva altro che piovere da una settimana, un vero diluvio, e per giunta Poncho era stato morso da un cervo e non voleva saperne di muoversi. Alex era convinto che il suo fosse il cane più tonto del mondo, l’unico labrador di quaranta chili morso da un cervo. In quattro anni di vita, lo avevano attaccato orsetti lavatori, il gatto del vicino e adesso un cervo, per non contare tutte le volte in cui era stato spruzzato dalle moffette e si era dovuto fargli il bagno nella salsa di pomodoro per attenuare la puzza. Alex si alzò dal letto senza disturbare Poncho e si vestì tremando; il riscaldamento veniva acceso alle sei, ma non era ancora riuscito a intiepidire la sua camera, l’ultima del corridoio.
A colazione Alex era di cattivo umore, certo non dello spirito giusto per festeggiare gli sforzi del papà nel preparare le crêpe. John Cold non era esattamente quel che si dice un bravo cuoco: sapeva fare soltanto le crêpe, che oltretutto gli venivano male, una specie di tortilla di caucciù. Per non offenderlo, i figli se le portavano alla bocca, ma alla prima occasione approfittavano per sputarle nella pattumiera. Avevano cercato inutilmente di allenare Poncho a mangiarsele: il cane era fesso, ma non così tanto.
“Quando starà meglio la mamma?” chiese Nicole, cercando di infilzare la crêpe di gomma con la forchetta.
“Sta’ zitta, stupida” replicò Alex, stufo di sentire la sorellina ripetere la stessa domanda più volte alla settimana.
“La mamma morirà” commentò Andrea, la sorella più grande di Alex.
“Bugiarda! Non è vero che morirà!” strillò Nicole.
“Siete due mocciose e non capite niente di niente!” esclamò Alex.
“Su, ragazzi, calmatevi. La mamma guarirà…” li interruppe John senza convinzione.
Alex provò rabbia verso il padre, le sorelle, Poncho, la vita in generale e perfino la mamma, che aveva pensato bene di ammalarsi. Si allontanò dalla cucina a grandi passi, pronto a uscire di casa a stomaco vuoto, ma nel corridoio inciampò nel cane e cadde bocconi.
“Levati di mezzo, deficiente!” gli gridò e Poncho, allegramente, gli diede una sonora leccatona sulla faccia che gli lasciò gli occhiali coperti di saliva.
Sì, era decisamente una giornata nera. Poco dopo suo padre scoprì che aveva una ruota della jeep a terra e Alex dovette aiutarlo a cambiarla, ma persero comunque minuti preziosi e arrivarono tardi a scuola. Nella precipitosa uscita da casa, Alex si era dimenticato i compiti di matematica e ciò contribuì a peggiorare i rapporti col professore, quell’ometto patetico che, così gli sembrava, si era messo in testa di rendergli la vita impossibile.
Come se non bastasse, aveva lasciato a casa anche il flauto e quel pomeriggio aveva una prova con l’orchestra della scuola; era il solista e non poteva certo mancare.