La figlia della fortuna è un romanzo di Isabel Allende, pubblicato in Italia da Feltrinelli 1999. Assieme a “La casa degli spiriti” e “Ritratto in seppia” offre l’inizio di una trilogia che vede intrecciare storie e personaggi che ritornano nei tre libri.
Il lungo viaggio di una giovane donna, nella seconda metà dell’Ottocento, una storia di passioni, amorose e politiche, per la terra, il mare, l’oro, per la libertà e la gioia d’esistere.
“Ormai non poteva più ignorare il sospetto di essersi innamorata dell’amore e di trovarsi intrappolata nello scompiglio di una passione da leggenda priva di alcun contatto con la realtà”
Cile. Una mattina d’estate del 1832 una neonata viene abbandonata davanti alla casa dei fratelli inglesi Sommers: Jeremy, John e Rose Sommers, che si sono trasferiti a Valparaìso. Jeremy, il capofamiglia, un severo uomo d’affari, John, capitano di vascello, sempre per mare, e Rose, una giovane affascinante ed eccentrica che ha rifiutato la schiavitù della vita coniugale. L’eccentrica Rose insiste perché la piccola cilena venga adottata e entri a far parte della famiglia. Eliza vive tra due mondi: le viene impartita un’educazione rigidamente anglosassone, nella speranza di un futuro sereno coronato da un buon matrimonio, e al contempo le vengono fatte conoscere dalla cuoca di casa, Mama Fresia, la vitalità, la magia e la carnalità del suo popolo. Si innamora perdutamente di un giovane idealista che lavora per Jeremy, Joaquin Andieta, il quale però nel 1848, alla notizia che in California sono stati scoperti favolosi giacimenti d’oro, decide di salpare in cerca di fortuna. Eliza, si mette sulle sue tracce e, assieme al medico cinese Tao Chi’en, si imbarca alla volta di San Francisco. Passa così da un’America all’altra, dove andrà alla ricerca dell’amato, tra dolore, sofferenza, speranza, fra avventurieri e banditi assetati di giustizia, sfidando sogni e sentimenti.
“Si sentiva pieno di rumore dentro di sé, agognava il vuoto del silenzio e della solitudine che il maestro gli aveva insegnato a coltivare quale bene più prezioso.”
Amo questa scrittrice e trovo questo libro molto bello, la trama è semplice, la scrittura sublime, personaggi sempre ben definiti e descrizioni emozionanti, ai limiti del surreale com’è nello stile dell’Allende, nel complesso una lettura molto piacevole, uno dei migliori romanzi dell’autrice.
Tutti nascono con qualche talento speciale ed Eliza Sommers scoprì presto di possederne due: un buon naso e una buona memoria. Il primo le servì per guadagnarsi da vivere e il secondo per potersene ricordare, se non con precisione, almeno con la poetica vaghezza degli astrologi. Quel che si dimentica è come se non fosse mai successo, e i suoi ricordi reali o illusori erano talmente tanti che per lei fu come vivere due volte Diceva sempre al suo fedele amico, il saggio Tao Chi’en, che la sua memoria era come il ventre della nave su cui si erano conosciuti, buia e spaziosa, zeppa di casse, barili e sacchi in cui si erano accumulati gli episodi di tutta la sua esistenza. Quando era sveglia faticava a trovare qualcosa in quel sommo disordine, ma poteva sempre farlo durante il sonno, proprio come le aveva insegnato Mama Fresia nelle dolci notti dell’infanzia, quando i contorni della realtà non erano che un tratto sottile di inchiostro pallido. Entrava allora nel luogo dei sogni per un sentiero più volte battuto e da li faceva ritorno con tutta la cautela necessaria per non straziare le tenui visioni alla luce aspra della coscienza. Confidava in tale risorsa come altri confidano nei numeri, e affinò a tal punto l’arte di ricordare che riusciva a vedere Miss Rose china su quella scatola di sapone di Marsiglia che era stata la sua prima culla.
“È impossibile che te ne ricordi, Eliza. I neonati sono come i gatti, non hanno né sentimenti né memoria,” sosteneva Miss Rose nelle rare occasioni in cui toccavano quest’argomento.
Tuttavia quella donna che la guardava dall’alto, con un vestito color topazio e uno chignon da cui sfuggivano le ciocche arruffate dal vento, era impressa nella sua memoria, ed Eliza non riuscì mai ad accettare altra spiegazione sulla sua origine.
“Il tuo sangue è inglese, come il nostro,” le assicurò Miss Rose quando raggiunse un’età sufficiente per comprendere. “Solamente a qualche membro della colonia britannica poteva venire in mente di metterti in una cesta davanti alla porta della Compagnia Britannica d’Importazione ed Esportazione. Sicuramente sapeva del buon cuore di mio fratello Jeremy e immaginò che ti avrebbe accolta. A quei tempi ero disposta a tutto pur di avere un bambino e tu mi piovesti tra le braccia, mandata dal Signore, per essere educata nei solidi principi della fede protestante e della lingua inglese.”
“Tu inglese? Bimba mia, non farti illusioni, hai i capelli da india, come me,” ribatteva Mama Fresia alle spalle della padrona.
La nascita di Eliza era un argomento tabù in quella casa e la bambina si abituò al mistero. Di questa, come di altre delicate questioni, non faceva parola con Rose e Jeremy Sommers, ma ne discuteva a bassa voce in cucina con Mama Fresia, che non modificò mai la descrizione della scatola di sapone, mentre con gli anni la versione di Miss Rose si arricchì fino ad assomigliare a una fiaba. A suo dire, la cesta rinvenuta nell’ufficio era fabbricata col vimine più fine e foderata di batista, il camicino di Eliza era ricamato a nido d’ape, le lenzuola erano bordate con pizzi di Bruxelles e, come se non bastasse, la neonata era protetta da una copertina di visone, stramberia mai vista in Cile. Con il tempo vennero aggiunte sei monete d’oro avvolte in un fazzoletto di seta e un bigliettino in inglese in cui si spiegava che la bambina, pur essendo illegittima, discendeva da un ottimo casato, ma Eliza non ebbe mai modo di vedere niente di tutto ciò. Il visone, le monete e il bigliettino sparirono opportunamente e della sua nascita non rimase traccia. La spiegazione di Mama Fresia, invece, si avvicinava di più ai suoi ricordi: una mattina di fine estate, sulla porta di casa, fu trovata una creatura di sesso femminile nuda dentro una scatola.
“Di copertine di visone e di monete d’oro neanche l’ombra. Io c’ero e mi ricordo molto bene. Eri lì che tremavi in un panciotto da uomo, nemmeno un pannolino ti avevano messo ed eri piena di cacca. Una mocciosa rossa come un’aragosta strabollita, con un ciuffetto da pannocchia sul cocuzzolo. Così eri. Non farti illusioni, della principessina non avevi niente e se avessi avuto i capelli neri come adesso, i padroni avrebbero buttato la scatola nella spazzatura,” sosteneva la donna.
Quanto meno tutti concordavano nel ritenere che la bambina avesse fatto il suo ingresso nella vita il 15 marzo 1832, un anno e mezzo dopo l’arrivo dei Sommers in Cile, motivo per il quale tale data fu scelta come quella del suo compleanno. Tutto il resto non fu che un cumulo di contraddizioni e alla fine Eliza concluse che non valeva la pena sprecare energie nel tentativo di venirne a capo perché, quale che fosse la verità, non ci si poteva più fare niente. L’importante è quel che si fa al mondo, e non come ci si arriva, era solita dire a Tao Chi’en negli anni della loro splendida amicizia, ma lui non era d’accordo e gli sembrava impossibile immaginare la propria esistenza separata dalla lunga catena degli avi che avevano contribuito non solo a dargli le caratteristiche fisiche e mentali, ma che gli avevano trasmesso anche il karma. Il suo destino, diceva, era determinato dalle azioni dei parenti vissuti prima di lui e per questo era necessario onorarli con preghiere quotidiane e temere quelle figure spettrali quando apparivano a reclamare i loro diritti. Tao Chi’en era in grado di recitare i nomi di tutti i suoi avi fino ai più remoti e venerabili trisavoli morti più di un secolo prima.