Paula è un romanzo della scrittrice cilena Isabel Allende, pubblicato nel 1995.
Nel 1991 improvvisamente la figlia Paula, a ventotto anni, si ammala di una malattia rara e gravissima, la porfiria, che la trascina in un lungo coma. La madre Isabel non abbandona la figlia per tutto il tempo e rimane al suo capezzale; durante tutto questo tempo comincia a scrivere, raccontando i ricordi della loro vita insieme in una commovente autobiografia.
“Un giorno in più di attesa, uno in meno di speranza. Un giorno in più di silenzio, uno in meno di vita. La morte vaga per i corridoi e il mio compito è di distrarla perché non trovi la tua porta.”
Paula, nata il 22 ottobre 1963, è una ragazza felice, innamorata di suo marito, appassionata del suo lavoro.
La sua è una vita semplice, e non ha niente a che vedere con quella di sua madre Isabel.
Due donne, due destini diversi. Improvvisamente, a ventott’anni, Paula si ammala di una malattia gravissima, la porfiria, che la trascina in un coma da cui non c’è ritorno. Isabel accorre al suo capezzale per cercare di trattenerla in vita o, forse, per accompagnarla dolcemente veso la fine… Grazie alla magia della scrittura, cerca di “distrarre la morte”, cerca di trovare un senso a una tale tragedia evocando la sua esuberante e bizzarra famiglia perché circondi Paula e la aiuti a superare, senza perdersi, il confine della vita. Un’autobiografia, una storia esemplare di dolore e di speranza, una straordinaria confessione sulla genesi delle sue opere, i suoi viaggi, gli amori: Isabel Allende, mescolando con franchezza e umanità il riso al pianto, dice addio a Paula come donna per darle il benvenuto come ‘spirito’. Perché non esiste separazione definitiva finché esiste il ricordo.
“I giorni passano un granello dopo l’altro misurati da una clessidra di sabbia paziente, sono talmente lenti che si perdono sul calendario, mi sermbra di essere sempre stata in questa città invernale fra chiese, statue e viali imperiali. Il ricorso alla magia risulta inutile; sono messaggi lanciati in mare in una bottiglia, con l’illusione che vengano trovati su un’altra sponda e che qualcuno venga a riscattarci, ma per ora non c’è risposta. Ho passato quarantanove anni correndo, nell’azione e nella lotta, dietro mete che non ricordo, inseguendo qualcosa senza nome che era sempre più in là. Oro sono costretta a rimanere ferma e silenziosa; per quanto corra non arrivo da nessuna parte, se grido nessuno mi sente. Mi hai dato il silenzio per riflettere sul mio passaggio per questo mondo, Paula, per tornare al passato vero e al passato fantastico, recuperare la memoria che altri hanno dimenticato, ricordare ciò che mai accadde e che forse accadrà. Assente, muta e paralizzata, tu sei la mia guida. Il tempo passa lentissimo. O forse il tempo non passa, siamo noi che passiamo attraverso il tempo.”
Ascolta, Paula, ti voglio raccontare una storia, così quando ti sveglierai non ti sentirai tanto sperduta.
La leggenda familiare inizia nei primi anni del secolo scorso, quando un robusto marinaio basco sbarcò sulle coste cilene con la testa piena di progetti di grandezza e protetto dal reliquiario di sua madre appeso al collo; ma perché risalire così indietro, basta dire che la sua discendenza fu una stirpe di donne impetuose e di uomini dalle braccia forti per il lavoro e dal cuore sentimentale. Alcuni, dal carattere irascibile, morirono sputando schiuma dalla bocca, ma forse la causa non fu la rabbia, come vollero le male lingue, bensì qualche pestilenza locale. Acquistarono terreni fertili nei dintorni della capitale che col tempo crebbero di valore, si raffinarono, edificarono dimore signorili con parchi e viali alberati, diedero le figlie in sposa a ricchi creoli, educarono i figli in severi collegi religiosi e così, col passar degli anni, si integrarono in una orgogliosa aristocrazia di proprietari terrieri che prevalse per più di un secolo, finché il vento impetuoso del modernismo non la sostituì al potere con i tecnocrati e i commercianti. Uno di loro era mio nonno.
Ebbe buoni natali, ma suo padre morì prematuramente per colpa di un inesplicabile sparo; non si seppero mai i dettagli di ciò che avvenne quella fatidica notte, forse fu un duello, una vendetta o un incidente d’amore, in ogni caso la sua famiglia rimase priva di risorse, ed egli, essendo il maggiore, dovette lasciare la scuola e cercarsi un impiego per mantenere la madre ed educare i fratelli minori.
Molto tempo dopo, quando era diventato un ricco signore davanti al quale gli altri si toglievano il cappello, mi confessò che la peggior povertà è quella degli indumenti, perché bisogna dissimularla. Si presentava impeccabile con gli abiti del padre riadattati alle sue misure, i colletti inamidati e i vestiti ben stirati per dissimulare il logorio della stoffa. Quei tempi di penuria gli temprarono il carattere, era convinto che l’esistenza fosse solo sforzo e lavoro, e che una persona per bene non potesse stare al mondo senza aiutare il prossimo. Già allora aveva quell’espressione concentrata e quell’integrità che lo caratterizzavano, era fatto della stessa materia rocciosa dei suoi antenati e, come molti di loro, aveva i piedi saldamente piantati per terra, ma una parte della sua anima fuggiva verso l’abisso dei sogni. Per questo si innamorò di mia nonna, la minore di una famiglia di dodici fratelli, tutti pazzi eccentrici e deliziosi, come Teresa, alla quale sul finire dei suoi giorni cominciarono a spuntare ali da santa e quando morì si seccarono in una notte tutti i roseti del Giardino Giapponese, o Ambrosio, spaccamontagne e gran fornicatore, che nei momenti di generosità si spogliava in strada per regalare gli abiti ai poveri.
Sono cresciuta ascoltando storie sul talento di mia nonna nel predire il futuro, leggere nella mente altrui, parlare con gli animali e muovere oggetti con lo sguardo. Raccontavano che una volta aveva spostato un biliardo per il salone, ma in realtà l’unica cosa che vidi muoversi in sua presenza fu un’insignificante zuccheriera che all’ora del tè soleva scivolare erratica sul tavolo. Queste facoltà suscitavano un certo timore, e malgrado il fascino della fanciulla i possibili pretendenti si impaurivano in sua presenza; ma per mio nonno la telepatia e la telecinesi erano divertimenti innocui e non ostacoli al matrimonio, lo preoccupava soltanto la differenza di età, lei era molto più giovane e quando lui la conobbe giocava ancora con le bambole
e si teneva stretto un piccolo cuscino consunto. Abituato a considerarla una bambina, non si rese conto della propria passione finché lei un giorno non
comparve con un vestito lungo e i capelli raccolti, e allora la rivelazione di un amore rimasto in gestazione per anni lo gettò in una crisi di timidezza
tale che smise di farle visita. Lei indovinò il suo stato d’animo prima ancora che lui riuscisse a dipanare la matassa dei propri sentimenti, e gli mandò una lettera, la prima delle molte che gli avrebbe scritto nei momenti decisivi delle loro vite.