Zorro. L’inizio della leggenda è un romanzo della scrittrice cilena Isabel Allende, pubblicato nel 2005.
Una biografia immaginaria, che racconta per la prima volta le origini dell’eroe mascherato Zorro e che è concepita come un antefatto degli eventi della storia originale di Zorro, il romanzo La maledizione di Capistrano, scritto da Johnston McCulley e pubblicato nel 1919. Contiene inoltre numerosi riferimenti ad altre opere legate a Zorro, specialmente alla pellicola del 1998, La maschera di Zorro.
“Questa è la storia di Diego de la Vega e delle circostanze che fecero di lui il leggendario Zorro. Finalmente posso rivelare la sua identità, che per tanti anni abbiamo mantenuto segreta, e lo faccio con una certa esitazione, visto che il foglio bianco mi intimorisce quanto le sciabole sguainate degli uomini di Moncada. L’intento di queste pagine è prevenire gli attacchi di chi è deciso a diffamare Zorro. Il numero dei nostri rivali è considerevole, come sempre succede a chi difende i deboli, salva le donzelle e umilia i potenti. Ovviamente ogni idealista si fa dei nemici, ma noi preferiamo contare gli amici, che sono molti di più. Mi sento in obbligo di narrare queste avventure perché servirebbe a poco che Diego rischiasse la propria vita in nome della giustizia, se poi nessuno lo venisse a sapere. L’eroismo è un mestiere mal pagato, che spesso conduce a una fine prematura; per questo attrae persone fanatiche o sensibili al fascino della morte. Esistono ben pochi eroi dal cuore romantico e dal carattere amabile. Diciamoci la verità: non c’è nessuno come Zorro.”
L’autrice rivisita la storia di Diego de la Vega, l’eroe mascherato che nell’America dell’Ottocento combatteva strenuamente per difendere la giustizia. Pur essendo un tipico romanzo di cappa e spada ottocentesco, pieno di caste passioni, acerrimi duelli e continue peripezie, “Zorro” ha continui riferimenti alla politica attuale e, grazie a una lunga serie di elementi magici, sentimentali e femminili, è un romanzo tipicamente allendiano.
“L’infanzia è un periodo difficile, pieno di timori infondati come la timidezza o la paura dei mostri. Dal punto di vista letterario non c’è alcuna suspense, visto che, salvo rare eccezioni, i marmocchi in genere sono piuttosto insipidi. Inoltre non hanno alcuna libertà, gli adulti decidono per loro e decidono male, inculcano loro idee sbagliate sulla vita e i bambini passano poi il resto della vita a cercare di liberarsene.”
Figlio del latifondista spagnolo Alejandro de la Vega e di Toypurnia, una bellissima india che prima di innamorarsi del marito era stata una specie di ‘guerrillera’ ‘ante litteram’, Diego eredita dal padre il senso dell’onore e dalla madre la volontà di difendere gli oppressi. Legato da una fraterna e indissolubile amicizia a Bernardo, figlio della dama di compagnia della madre, trascorre un’infanzia serena. Alle soglie della giovinezza, accompagnato dal fedele amico Bernardo, viene mandato dal padre a studiare in Europa. Vengono accolti da Tomàs de Romeu, un vedovo illuminista, amico dei francesi bonapartisti che governano la Catalogna, che ha due giovani figlie, la bellissima Juliana e l’intrepida Isabel. Diego prende lezioni di scherma da Manuel Escalante che, oltre a essere un ottimo spadaccino, si rivelerà un membro del gruppo massonico “La Justicia” cui presto si affilierà anche de la Vega, con il ‘nome di battaglia’ di Zorro (volpe in spagnolo).
Intanto, Diego si innamora perdutamente di Juliana che, però, non lo ricambia e non ricambia nemmeno le attenzioni dell’altro pretendente, Rafael Moncada, destinato a divenire l’acerrimo nemico di Zorro. Diego non riesce a evitare che, con le sconfitte di Napoleone sul suolo iberico, Tomàs de Romeu venga imprigionato e fucilato, ma si fa carico delle ragazze e in seguito a uno scontro con Moncada è costretto a lasciare l’Europa. Dopo un seminaufragio a poche leghe dall’America, la nave viene assaltata dai pirati che prendono Diego e le ragazze come ostaggi. La situazione si ribalta quando Juliana s’innamora del corsaro che l’ha rapita e decide di rimanere con lui in Louisiana. Con il cuore spezzato, Diego torna in California e scopre che la regione è finita sotto il governo di Moncada, recatosi in America per ritrovare Juliana. Il suo primo atto giuridico è la confisca dei beni di Alejandro de la Vega e la sua incarcerazione. Nei panni di Zorro, e grazie al prezioso aiuto di Isabel e Bernardo, Diego riesce a liberare il padre e a cacciare Moncada dalla California.
Anche se questo libro non è all’altezza di altri libri dell’Allende, la sua penna resta magica e ci regala quest’opera che ho gradito molto, anche se alcune parti sono po’ lente.
Partiamo dall’inizio, da un evento senza il quale Diego de la Vega non sarebbe mai nato. Tutto cominciò in Alta California, nella missione di San Gabriel, nell’anno 1790 di Nostro Signore. A quel tempo la missione era guidata da padre Mendoza, un francescano con spalle da boscaiolo e un aspetto più giovanile dei suoi quarant’anni ben spesi, energico e autoritario, per il quale la parte più impegnativa del ministero era mettere in pratica la lezione di umiltà e bontà di san Francesco d’Assisi. In California c’erano molti religiosi, sparsi in ventitré missioni, impegnati nel diffondere la dottrina di Cristo tra le varie migliaia di pagani delle tribù chumash e shoshone, e altre, che non sempre si prestavano di buon grado a riceverla. I nativi della costa della California disponevano di una rete di scambi commerciali attiva da oltre mille anni. La zona era ricca di risorse naturali e ogni tribù si era specializzata in un settore particolare. Gli spagnoli erano rimasti meravigliati dall’economia chumash, così complessa da poter essere paragonata a quella cinese. Come moneta gli indios usavano conchiglie e organizzavano regolarmente fiere, dove oltre al baratto si concordavano i matrimoni.
Il mistero di quell’uomo adorato dai bianchi, condannato alla crocifissione, confondeva gli indios, che non comprendevano il vantaggio di soffrire in questo mondo per godere di un ipotetico benessere in un altro. Certo, nel paradiso cristiano si poteva stare su una nuvola a suonare l’arpa con gli angeli, tuttavia la maggioranza di loro preferiva di gran lunga, dopo la morte, cacciare orsi con i propri antenati nelle terre del Grande Spirito. Non comprendevano nemmeno perché gli stranieri piantassero una bandiera per terra, tracciassero linee immaginarie, la dichiarassero di loro proprietà e si risentissero se qualcuno vi entrava per inseguire un cervo. L’idea di possedere la terra risultava loro assurda quanto quella di spartirsi il mare. Quando a padre Mendoza giunse la notizia che varie tribù erano insorte al comando di un guerriero con la testa di lupo, recitò le sue preghiere per le vittime ma non si preoccupò eccessivamente, perché era certo che San Gabriel non corresse alcun pericolo. Far parte della sua missione era un privilegio, e lo dimostravano le famiglie indigene che accorrevano a richiedere protezione in cambio del battesimo e rimanevano di buon grado sotto il suo tetto; lui non aveva mai dovuto ricorrere ai soldati per fare proseliti. Attribuì la recente insurrezione, la prima in Alta California, agli abusi della soldataglia spagnola e alla severità dei suoi fratelli missionari. Le tribù, suddivise in piccoli gruppi, avevano usidiversi e comunicavano tra loro mediante un sistema di segnali; non avevano mai stretto accordi su niente al di fuori del commercio, e comunque, di certo, mai sulla guerra. Secondo lui quelle povere genti erano innocenti pecorelle di Dio, che peccavano per ignoranza e non per vizio; dovevano esserci ragioni davvero gravi per insorgere contro i colonizzatori.
Senza tregua, il missionario lavorava gomito a gomito con gli indios nei campi, nella concia delle pelli e nella macina del mais. Il pomeriggio, quando gli altri riposavano, curava ferite dovute a lievi incidenti o estraeva qualche dente marcio. Oltre a ciò impartiva lezioni di catechismo e di aritmetica perché i neofiti – come venivano chiamati gli indios convertiti – potessero contare le pelli, le candele e le mucche; non insegnava loro a leggere e scrivere perché in quel luogo tali conoscenze non avevano alcuna applicazione pratica. Di notte imbottigliava il vino, faceva i conti, scriveva sui suoi quaderni e pregava. All’alba suonava la campana della chiesa per chiamare a messa la congregazione, e dopo la funzione sovrintendeva alla colazione con occhio attento perché nessuno rimanesse senza cibo. Per tutti questi motivi, e non per eccesso di fiducia in se stesso o per superbia, era convinto che le tribù sul piede di guerra non avrebbero attaccato la sua missione. Ciò nonostante, poiché le cattive notizie continuavano ad arrivare settimana dopo settimana, finì per preoccuparsi. Inviò un paio di uomini fidati a indagare su quello che stava succedendo nel resto della regione; questi non ci misero molto a localizzare gli indios coinvolti nell’insurrezione e a ottenere ragguagli, dato che vennero accolti come compagni da quegli stessi che volevano spiare. Al loro ritorno raccontarono al missionario che un eroe, sorto dalle profondità del bosco e posseduto dallo spirito di un lupo, era riuscito a stringere un patto fra diverse tribù per scacciare gli spagnoli dalle terre dei loro antenati, nelle quali avevano sempre potuto cacciare liberamente.
1 commento
Questo libro è il peggiore della scrittrice,non mi ha ne appassionato ne coinvolto e il finale è deludente!