Se potessi rivederti è un libro di Levy Marc, pubblicato in Italia nel 2006, traduzione di Francesco Bruno, sequel di “Se solo fosse vero“. La vita da un’altra possibilità a Arthur e Lauren, un amore folle, un sogno infranto.
«A forza di chiudere gli occhi su ciò che li circonda, alcuni sono diventati ciechi senza nemmeno accorgersene. Io invece ho imparato a vedere anche al buio»
Arthur è un giovane architetto di San Francisco che vuole un amore senza compromessi, trovare l’anima gemella e trascorrere la vita insieme a lei. È appena tornato da Parigi, dove ha vissuto due anni per dedicarsi a un progetto di lavoro e per cercare di scordare Lauren, la donna con cui ha vissuto una meravigliosa storia d’amore… soprannaturale.
Una sera d’inverno i due si incontrano nell’appartamento di Arthur, solo che Lauren è un fantasma. In coma dopo un incidente stradale, il suo corpo giace in ospedale, il suo spirito, vitale e affascinante, si innamora di Arthur, l’unico che può vederla. Proprio quando il sentimento sbocciato tra i due si trasforma in un legame profondo, i medici decidono che è giunto il momento di staccare il respiratore.
Il romanzo è ambientato qualche anno dopo: Lauren è uscita dal coma e prosegue il suo internato, vive un’altra vita in cui non sembra esserci spazio per Arthur andato in Francia per dimenticarla, ma deve tornare a San Francisco per lavoro.
Per fortuna, però, il fato interviene e le loro strade sono destinate a incrociarsi di nuovo e questa volta ci sarà forse per entrambi la possibilità di riconoscersi e raccontarsi tutto quello che non si sono ancora detti…
Dopo l’indimenticabile Se solo fosse vero, un’altra storia d’amore dolcissima e incredibile, raccontata con candore e ironia da un autore capace di far vibrare tutte le corde del sentimento.
Questo è quello che si legge nelle recensioni ufficiali, ma a mio umile parere questo libro per come è stato scritto poteva benissimo non esistere, è stata una vera delusione, la storia fuori dalla realtà che mi aveva affascinato in “Se solo fosse vero”, qui mi ha disturbata, sembra che l’autore abbia fatto un plagio mal riuscito del suo primo libro, manca la poesia e gli aforismi che davano senso alla lettura di una storia irreale, per non parlare dei dialoghi, molto banali, insomma non mi ha per niente catturata.
Ho visto il film di “Se solo fosse vero”, hanno cambiato i nomi, hanno cambiato un paio di cose, ma soprattutto hanno cambiato il finale e per la prima volta sono contenta che il film sia stato cambiato, di solito mi arrabbio parecchio quando nella trasposizione di un libro questo viene stravolto, se dovessi immaginare la chiusura dell’ultima pagina di un libro come questo lo fare sicuramente con le ultime immagini del film, in modo poetico, come lo è stato il primo libro.
Arthur pagò il conto al banco dell’albergo. Aveva ancora il tempo di fare due passi nel quartiere. L’addetto ai bagagli consegnò una contromarca che lui infilò nella tasca della giacca. Attraversò il cortile e imboccò rue des Beaux-Arts. I selciati lavati con gran profusione d’acqua asciugavano ai primi raggi del sole. In rue Bonaparte i negozi cominciavano ad animarsi. Arthur esitò davanti alla vetrina di una pasticceria e proseguì per la sua strada. Un po’ più in su il campanile bianco della chiesa di aint-Germain-des-Prés si stagliava sui colori del giorno nascente. Camminò fino a place de Fùrstenberg, ancora deserta. Una serranda si alzava. Arthur salutò la giovane fioraia con indosso un camice bianco che le dava una bellissima aria da chimica. I mazzi anarcoidi che spesso preparava con lui abbellivano le tre stanze dell’appartamentino che Arthur occupava fino a due giorni prima. La fioraia gli restituì il saluto, senza sapere che non l’avrebbe rivisto. Restituendo le chiavi alla custode alla vigilia del fine settimana, Arthur aveva chiuso la porta su alcuni mesi di vita all’estero e sul progetto architettonico più stravagante che avesse mai realizzato: un centro culturale francoamericano.
Forse un giorno sarebbe tornato in compagnia della donna che occupava i suoi pensieri. Le avrebbe fatto scoprire le vie strette di quel quartiere che tanto amava, avrebbero camminato insieme lungo le sponde della Senna dove lui si era abituato a passeggiare anche nei giorni di pioggia, frequenti nella capitale.
Sedette su una panchina per scrivere la lettera che gli stava a cuore. Quando fu quasi finita, chiuse la busta in carta di Rives senza incollarla e la mise in tasca. Guardò l’orologio e riprese la via dell’albergo. Il taxi sarebbe arrivato puntuale, il suo aereo partiva di lì a tre ore. Quella sera, al termine della lunga assenza che si era imposto, sarebbe stato di
ritorno nella sua città.Il cielo della baia di San Francisco era rosso fuoco. Attraverso l’oblò, il Golden Gate emergeva da un cumulo di nebbia. L’aereo piegò sulla verticale di Tiburon, perse lentamente quota, prua a sud, e virò di nuovo sorvolando il San Mateo Bridge. Dall’interno della cabina si aveva l’impressione che si sarebbe lasciato scivolare così verso le saline che splendevano di mille scintillii.
La Saab cabriolet s’insinuò fra due camion, tagliò tre colonne in diagonale, ignorando i lampeggi di fari di qualche guidatore stizzito. Lasciò la Highway 101 e riuscì a imboccare giusto in tempo la bretella che portava all’aeroporto internazionale di San Francisco. In fondo alla rampa, Paul rallentò per controllare sui cartelli indicatori se era sulla strada giusta. Imprecò perché aveva sbagliato raccordo e fece una marcia indietro di oltre cento metri per trovare l’ingresso al parcheggio.
In cabina di pilotaggio, il computer di bordo indicava un’altitudine di settecento metri. Il paesaggio cambiava di nuovo. Una foresta di grattacieli, l’uno più moderno dell’altro, si stagliava nella luce del tramonto. I flap si spiegarono aumentando l’ampiezza alare e permettendo all’aereo di ridurre ulteriormente la velocità. Il rumore sordo del carrello d’atterraggio non tardò a farsi sentire.
Dentro il terminal, il tabellone già annunciava l’arrivo del volo AF 007. Paul scese a precipizio la scala mobile e si fiondò nel corridoio. Il marmo era scivoloso e lui rischiò di cadere in una curva: fece appena in tempo ad aggrapparsi alla manica di un pilota che arrivava in senso contrario, a chiedere scusa, e riprese la sua folle corsa.
L’airbus A 340 dell’Air France procedeva lentamente sulla pista, il suo buffo muso si avvicinava in modo impressionante al vetro del terminal. Il rumore delle turbine si affievolì fino a diventare un debole sibilo e la scaletta d’imbarco si accostò alla fusoliera.
Dietro la sbarra degli arrivi internazionali, Paul si curvò, mani sulle ginocchia, per riprendere fiato. Le porte scorrevoli si aprirono e il fiotto dei primi passeggeri cominciò a riversarsi nell’atrio. In lontananza, una mano si agitava tra la folla: Paul si aprì un varco per andare incontro al suo miglior amico.
« Mi stringi un po’ troppo », disse Arthur a Paul che lo abbracciava.