Come diventare buoni è un romanzo pubblicato dal londinese Nick Hornby che è considerato uno dei migliori scrittori della sua generazione. Dopo aver analizzato diverse tematiche della società umana si dedica questa volta alla famiglia ed ai sentimenti di bontà e cattiveria.
“La mia famiglia, penso, solo questo. E poi: posso farlo. Posso viverla, questa vita. Sì, posso viverla. È una scintilla che voglio alimentare, un crepitio di vita nella batteria scarica; ma proprio nel momento sbagliato lancio un’occhiata al cielo notturno dietro David, e vedo che là fuori non c’è nulla.”
Come si fa a diventare buoni? E, soprattutto, che cosa significa essere buoni? Katie Carr non se l’è mai chiesto: una donna che ha scelto di diventare medico per aiutare gli altri e che ha cresciuto i figli ai valori morali più profondi non ha nemmeno bisogno di porsi la questione. Finché quella donna non tradisce il marito.
E allora il marito, David, decide di dare una svolta alla sua vita: smette di essere «l’uomo più arrabbiato di Holloway» per diventare buono. Ma buono sul serio. Niente di più azzeccato, a questo punto, dell’entrata in scena di BuoneNuove: con tanto di piercing alle sopracciglia, una storia di droga alle spalle e tecniche di guarigione dello spirito e del corpo capaci di sfidare tutta la scienza medica, BuoneNuove aiuta David a mettere a punto strategie di bontà e varare progetti piccoli e grandi per contribuire a risolvere il problema della sofferenza umana: lasagne prese dal congelatore di casa per sfamare i barboni del parco, giocattoli e computer sottratti ai figli per intrattenere i bambini meno fortunati, esortazioni agli abitanti della via perché ciascuna famiglia metta a disposizione una stanza per un senzatetto e infine un bel manuale di istruzioni su come redistribuire equamente le ricchezze mondiali. Com’è prevedibile, Katie perde ogni punto di riferimento: il marito è irriconoscibile, i due figli si schierano l’uno con la madre e l’altra col padre, e lei deve sopportare la convivenza coatta con BuoneNuove e un senzatetto che si fa chiamare Scimmia. E, catapultata in una realtà tutta nuova, è costretta a riflettere anche sulla crisi del suo matrimonio.
Spostando il suo sguardo arguto e intelligente sui temi della famiglia, dell’amore coniugale e dell’amore tout court, con questo nuovo romanzo Hornby aggiunge una nota di amarezza al suo consueto, irresistibile humour, l’amarezza di chi è determinato a mettere a nudo le nostre ipocrisie, grandi e piccole, le debolezze e le menzogne che non vorremmo ammettere.
Mi è piaciuto e mi ha sconvolto, è impossibile non ritrovarsi nelle considerazioni della protagonista, un libro che aiuta a pensare alle cose di ogni giorno, a quelle piccole cose routinarie che a volte non consideriamo o a volte odiamo ma che in realtà fanno parte della nostra stessa vita. Leggetelo…
Mi trovo in un parcheggio a Leeds quando dico a mio marito che non voglio più stare con lui.
David non è lì con me nel parcheggio. E’ a casa, a curare i bambini, e io l’ho chiamato soltanto per ricordargli che dovrebbe scrivere due righe per la maestra di Molly. L’altra cosa mi è
come… sfuggita. Un errore. Ovvio. Evidentemente, e con mia grande sorpresa, sono il tipo di persona capace di dire al marito che non se la sente più di stare con lui, ma non pensavo
davvero di essere capace di dire questa cosa da un cellulare, da un parcheggio. Adesso, è chiaro, la considerazione che avevo di me stessa andrà rivista. Posso definirmi una che non
dimentica i nomi, per esempio, perché mi sono ricordata nomi in migliaia di occasioni e li ho dimenticati solo in uno o due casi. Ma per la maggior parte delle persone le conversazioni di
fine matrimonio si svolgono una volta sola, se va bene. Se scegli di condurre la tua da un cellulare, da un parcheggio di Leeds, allora non puoi certo pretendere che non sia da te, così come Lee Harvey Oswald non poteva certo pretendere che sparare ai presidenti non fosse da lui. A volte basta un gesto per essere giudicati.
Più tardi, nella camera d’albergo, quando non riesco a prendere sonno – e questa è almeno in parte una consolazione, perché anche se sono diventata la donna che manda all’aria il matrimonio da un parcheggio, dopo ho almeno la decenza di agitarmi e dimenarmi – riprendo la trama della conversazione, con tutti i dettagli che riesco a ricordare, cercando di capire come abbiamo fatto ad arrivare da lì (l’appuntamento di Molly dal dentista) a là (il divorzio imminente) in tre minuti. Dieci, facciamo. Per poi impantanarmi in una meditazione ininterrotta, da tre del mattino, su come abbiamo fatto a finire da lì (l’incontro a un ballo del college nel 1976) a là (il divorzio imminente) in ventiquattro anni.
A onor del vero, la seconda parte di questa mia riflessione dura così a lungo perché ventiquattro anni sono tanti, e ci sono una miriade di pezzi che mi ritornano in mente, piccoli
dettagli narrativi, che in realtà non c’entrano poi molto con la storia. Se le mie riflessioni sul nostro matrimonio fossero state trasposte in un film, i critici avrebbero detto che era tutto contorno, che non c’era trama, e che si sarebbe potuto sintetizzare così: due persone s’incontrano, s’innamorano, hanno dei figli, cominciano a litigare, diventano grassi e irritabili
(lui), annoiati, disperati e irritabili (lei) e si separano. E non avrei avuto niente da ridire. Non siamo niente di speciale.
La telefonata, però… non riesco più a ricostruirla, non riesco più a riprendere il punto in cui da chiacchiera francamente banale e relativamente armoniosa sulle piccole faccende domestiche si è trasformata in questo momento da tregenda, da fine del mondo. Riesco a ricordare com’è iniziata, quasi parola per parola.