Febbre a 90° è un libro autobiografico del 1992, scritto dall’autore Britannico Nick Hornby. Una vera e propria «educazione sentimentale» del tifoso, un atto d’amore che può contagiarci per sempre, una vita vissuta ed esplorata attraverso il calcio quando il calcio era la vita.
La passione per il football e l’amore per la squadra del cuore possono, si sa, essere così intensi da trasformare radicalmente la vita di un uomo, e così è stato per Nick Hornby, tifoso dell’Arsenal fin da bambino, che racconta in prima persona, con tono ironico e affettuoso, appassionato e divertito, gli entusiasmi e le depressioni, le impagabili emozioni e le cocenti delusioni vissute da un «ossessionato» del pallone.
“L’inglese bianco, borghese, del sud è la creatura più sradicata in assoluto; preferiremmo appartenere a qualsiasi altra comunità del mondo. I nativi dello Yorkshire, di Lancaster, gli scozzesi, gli irlandesi, i neri, i ricchi, i poveri, perfino gli americani e gli australiani hanno qualcosa su cui piangere davanti a una birra o in un pub o in un bar, canzoni da cantare, cose a cui aggrapparsi e stringere forte quando ne hanno voglia, ma noi non abbiamo niente, o perlomeno niente che vogliamo.”
La sorpresa. È questa la sensazione dominante in chi legge anche poche pagine di Febbre a 90′. Sembrerebbe impossibile, infatti, che un libro sul calcio (più esattamente sulla passione per il calcio, più esattamente sull’amore per l’Arsenal) riesca a contenere una gamma così ampia di temi e personaggi, a sprigionare una tale carica di commozione ed umorismo.
Raccontando la sua storia di tifoso (scandita, tra l’infanzia e la maturità, dalle partite dei “Gunners”), Nick Hornby ci descrive i multiformi aspetti di un’ossessione: le abitudini, i riti, i tic, i sogni, la depressione costante e i rari momenti estatici di un assiduo frequentatore di stadi. Così, i molti appassionati italiani della materia potranno vedere in filigrana, attraverso le vicende del football inglese (del resto piuttosto note anche da noi), una parte importante della loro stessa vita.
Perché la febbre del calcio, a tutte le latitudini, sembra essere la stessa.
Ma questa febbre, ci suggerisce a tratti l’autore, ha anche la funzione di riempire mancanze d’altro tipo, e non è tanto slegata dai problemi esistenziali.
Lui, in particolare, intravede un certo parallelismo (magari per smentirlo) fra i successi e insuccessi dell’Arsenal e le venture e sventure della propria vita:
“Mi innamorai del calcio come mi sarei poi innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente”.
Ecco che, grazie alla profondità e alla verve del brillante autore di Alta fedeltà, la cronaca si trasforma in romanzo; nel romanzo del football, raccontato con straordinaria competenza, ma anche in un’avvincente storia di formazione: i rapporti con la famiglia e in particolare con la figura paterna, le ragazze e le peripezie sentimentali, gli amici e il lavoro, tutti i nodi fondamentali del diventare grandi sono narrati fra un gol e l’altro.
Lo sfondo è quello della Londra metropolitana (con il contrappunto di un’indimenticabile Inghilterra di provincia), della musica (tanta musica, come in Alta fedeltà) e delle mode giovanili. Perché una delle virtù di Hornby è la capacità di calarsi nella realtà sociale, di scandagliare la psicologia delle tifoserie e di osservare i movimenti delle folle sugli spalti (un capitolo particolarmente toccante, soprattutto per noi italiani, è quello dedicato alla tragedia dell’Heysel). E anche questo si trasforma in pulsante materia narrativa: colori, gesti, spettacolo e inimitabili atmosfere.
Il libro sul calcio che ha vinto tutte le partite, racconta, con tono ironico e affettuoso, appassionato e divertito, gli entusiasmi e le depressioni, le impagabili emozioni e le cocenti delusioni vissute da un «ossessionato» del pallone. Una vera e propria «educazione sentimentale» del tifoso, un atto d’amore che può contagiarci per sempre, una vita vissuta ed esplorata attraverso il calcio quando il calcio era la vita.
Mi è piaciuto molto, soprattutto perchè l’autore è riuscito a descrivere appieno tutti i sentimenti del tifoso,qualunque squadra egli sostiene.
Incipit di “Febbre a 90°”
È sempre là dentro, in cerca di una via d’uscita.
Mi sveglio verso le dieci, faccio due tazze di tè, le porto in camera, ne metto una sul suo comodino e una sul mio. Sorseggiamo pensierosamente; a così breve distanza dal risveglio lunghe pause, affollate di sogni, intercorrono tra un commento casuale e l’altro – sulla pioggia fuori, sulla serata trascorsa, sul fatto di fumare in camera da letto quando ho accettato di non farlo. Lei mi chiede cosa farò questa settimana, e io penso:
(1) mercoledì vedrò Matthew.
(2) Matthew ha ancora la mia videocassetta Champions.
(3) [Mi viene in mente che Matthew, un tifoso dell’Arsenal solo di nome, non va a Highbury da un paio d’anni, e non ha quindi avuto la possibilità di vedere in carne ed ossa i più recenti acquisti] mi domando cosa ha pensato di Anders Limpar.
E in tre piccole tappe, dopo quindici, venti minuti che sono sveglio, parto. Vedo Limpar correre verso Gillespie, inclinarsi a destra, cadere: RIGORE! DIXON SEGNA! 2-0!… Il colpo di tacco di Merson e il destro di Smith nell’angolo opposto, nella stessa partita… il pallonetto di Merson che supera Grobbelaar ad Anfield… la girata al volo e il gran tiro di Davis contro il Villa… (E questa, notate bene, è una mattina di luglio, il nostro mese di ferie, in cui non c’è alcun campionato di alcun genere.) Qualche volta, quando mi lascio totalmente sopraffare da queste fantasticherie, passando per Anfield ’89, Wembley ’87, Stamford Bridge 78, tutta la mia vita calcistica mi balena davanti agli occhi.
“A cosa stai pensando?” chiede lei.
A questo punto mento. Non stavo affatto pensando a Martin Amis o a Gerard Depardieu o al Partito Laburista. D’altronde, gli ossessionati non hanno scelta; in occasioni come queste devono mentire. Se dicessimo sempre la verità, non riusciremmo a mantenere rapporti con chi vive nel mondo reale. Verremmo lasciati marcire con i nostri dépliant dei programmi dell’Arsenal o con la nostra collezione di dischi originali della Stax con etichetta blu o con i nostri spaniel King Charles, e i nostri sogni di due minuti ad occhi aperti si farebbero lunghi, sempre più lunghi, finché perderemmo il lavoro e smetteremmo di lavarci e di raderci e di mangiare, e giaceremmo a terra nel nostro sudiciume riavvolgendo in continuazione la videocassetta nel tentativo di imparare a memoria l’intero commento, compresa l’esperta analisi di David Pleat, della notte del 26 maggio 1989. (Credete che abbia dovuto controllare la data? Ah!) La preoccupante verità è questa: per buona parte di una giornata qualsiasi, io sono un rimbambito.
Non vorrei insinuare che la contemplazione del calcio in se stessa sia un uso improprio dell’immaginazione. David Lacey, il principale cronista di calcio del “Guardian”, è un bravo scrittore, un uomo intelligente, che presumibilmente dedica al gioco molta più parte della sua vita interiore di quanto non faccia io. La differenza tra Lacey e me è che io raramente penso. Io ricordo, io fantastico, io tento di visualizzare ogni singolo gol di Alan Smith, io spunto il numero dei campi di Prima divisione in cui sono stato; una volta o due, quando non riuscivo a dormire, ho provato a contare tutti i giocatori dell’Arsenal che ho visto (da ragazzino, conoscevo i nomi delle mogli e delle fidanzate della formazione che realizzò la Doppietta; adesso riesco solo a ricordare che la fidanzata di Charlie George si chiamava Susan Farge, e che la moglie di Bob Wilson si chiamava Megs, ma anche questo ricordo parziale è spaventosamente superfluo).
Niente di tutto ciò è pensiero, nel vero senso della parola. Non implica alcuna analisi o consapevolezza, né alcun rigore mentale, perché agli ossessionati è negata qualunque prospettiva sulla loro passione.
Questo, in un certo senso, è ciò che definisce un ossessionato (e serve a spiegare come mai così poi chi di loro si riconoscano tali. Un altro tifoso che l’anno scorso, in un gelido pomeriggio di gennaio, da solo, andò a vedere la seconda squadra del Wimbledon contro quella del Luton – non per volerne sapere più degli altri o per qualche sorta di autoironica, stramba ragazzata, ma perché sinceramente interessato – di recente mi ha detto, con assoluta convinzione, di non essere in alcun modo eccentrico).
Febbre a 90′ è il tentativo di acquisire un qualche punto di vista sulla mia ossessione. Perché una relazione iniziata come una cotta da scolaro è resistita per quasi un quarto di secolo, più a lungo di ogni altro legame da me liberamente scelto? (Amo moltissimo la mia famiglia, ma mi è stata per così dire affibbiata, e non sono più in contatto con nessuno degli amici che avevo prima dei quattordici anni, a parte l’unico altro tifoso dell’Arsenal che c’era a scuola.) E perché questa affinità è riuscita a sopravvivere ai miei periodici sentimenti di indifferenza, dolore e vero e proprio odio?
Il libro è anche, in parte, un’esplorazione di alcuni dei significati che il calcio sembra racchiudere per tanti di noi. Ritengo ormai indubbio che la mia devozione dica molto sul mio carattere e sulla mia storia personale, ma il modo in cui il calcio è vissuto dalla gente sembra offrire ogni genere di informazione sulla nostra società e sulla nostra cultura. (Ho amici che considereranno questa una pretenziosa sciocchezza fine a se stessa, la classica giustificazione disperata che ci si può aspettare da un uomo che ha speso un sacco del suo tempo libero a logorarsi miserabilmente al freddo. Sono molto riluttanti all’idea, in quanto io tendo a sopravvalutare il significato metaforico del calcio e ad introdurlo quindi in conversazioni a cui non si addice affatto. Ammetto ora che il calcio non abbia alcuna attinenza con il conflitto delle Falkland, il caso Rushdie, la guerra del Golfo, il parto, il buco dell’ozono, la politax, ecc. ecc., e vorrei approfittare dell’occasione per scusarmi con chiunque abbia dovuto ascoltare le mie analogie patetiche e forzate.)
Infine, Febbre a 90′ riguarda la condizione del tifoso. Ho letto libri scritti da persone che evidentemente amano il calcio, ma questa è tutta un’altra cosa; e ho letto libri scritti, in mancanza di una parola migliore, da hooligan; ma almeno il 95 per cento dei milioni di spettatori che ogni anno guardano le partite non hanno mai dato un pugno in vita loro. Questo libro quindi è per noialtri, e per chiunque si sia chiesto cosa significhi essere fatti così. Nonostante i particolari qui riportati riguardino solo me, spero stuzzicheranno quanti si siano mai scoperti andare alla deriva, nel bel mezzo di una giornata di lavoro o di un film o di una conversazione, verso un sinistro al volo nel sette di destra, sferrato dieci o quindici o venticinque anni fa.
Il libro divenne anche la base per due film: Uno fu il film inglese Febbre a 90° che uscì nel 1997 diretto da David Evans, con Colin Firth, Stephen Rea, Ruth Gemmel (Trailer).
L’altro fu un remake americano del film inglese intitolato L’amore in gioco del 2005 diretto da Bobby Farrelly, Peter Farrelly, con Drew Barrymore, Jimmy Fallon, Jason Spevack, Jack Kehler, Scott H. Severance. (Trailer)