Bastardi senza amore è il secondo romanzo di Simona Sparaco, pubblicato nel 2010.
“Forse meritavi una storia più semplice, qualcuno capace di amarti senza complicazioni. Io non so cosa sia l’amore, non ci ho mai creduto. Ma ho creduto in te, dal primo momento che ti ho vista.”.
Svevo Romano è il classico uomo che nessuna donna vorrebbe mai incontrare sul proprio cammino: narcisista e superficiale, è all’apice della carriera, subissato di impegni, e trascorre le sue serate nei locali più esclusivi, tra eccessi e donne da capogiro. Finché un giorno, all’imbarco di un aereo che deve portarlo dalla bellissima amante parigina, la mente comincia a giocargli un brutto scherzo: la sua percezione del tempo subisce un’improvvisa accelerazione. Svevo si ritrova costretto a una frenetica corsa per salvare tutto quello che ha sempre ritenuto importante, ma il tempo sembra spazzare via ogni cosa, facendo luce su un passato difficile e sullo squallore della sua esistenza. A correre in suo aiuto quando tutto sembra perso è lo sguardo di una sconosciuta, una donna molto diversa da quelle di cui si è circondato finora. Con lei, come per incanto, il mondo rallenta, e la vita sembra acquistare un significato che va ben oltre i confini del tempo e dello spazio.
“Il vento diventa più intenso, le onde si gonfiano prima di infrangersi sul bagnasciuga. Mi vengono in mente le parole di mio padre, scritte a penna, sul retro di quella fotografia: «Non puoi contrastare l’onda. La salvezza è dentro di lei, devi solo assecondarla».
Quell’onda è come il tempo. E noi siamo in viaggio; navi da carico con destinazione sconosciuta, complesse nella coordinazione del nostro equipaggio. Le parti comunicano tra loro attraverso il manifestarsi di sintomi. A volte le reazioni vengono stimolate dall’esterno: basta l’uso di un certo tipo di sostanza per trasformare la nostra percezione del tempo e dello spazio, e prepararsi a una brusca virata. Altre volte, invece, lo stimolo viene dall’interno: il peso di una scelta – in che modo attraversare quelle onde, come prepararsi ad affrontare la tempesta – può creare un grande scompiglio nella sala dei comandi, il panico da naufragio. E l’insofferenza, l’instabilità in quella sala così importante che è la nostra mente non tarda a manifestarsi. È stato lì che ho cominciato a dipingerti, a immaginarti, come un vecchio signore impegnato a distruggermi. In realtà, mi hai invitato a scavare sotto la superficie delle cose, muovendoti avanti e indietro, tra morale e materiale, tra concreto e immaginario, tra duraturo ed effimero. E tutto è cominciato quando ti sei fermato con lei. De Santis aveva ragione, la mente riesce a fare cose incredibili.”
Dopo averci raccontato, con Lovebook, un grande amore nato sui social network, Simona Sparaco esplora la frenesia dei tempi moderni e ci regala una storia originale e poetica, per capire come il tempo vissuto senza amore sia soltanto tempo sprecato.
UNO
«Svevo, perché non mi richiami mai?».
Non ho ancora capito cosa passi per la testa di una donna quando decide di avventurarsi su un terreno così accidentato.
«Ho molto da fare», le rispondo, con la solita insofferenza che mi si abbarbica dentro come una scimmia.
«Non ti va».
«Se preferisci vederla così».
Un lampo di rabbia scintilla sotto il pacato sorriso. Di questa donna conosco il sapore della pelle, la consistenza delle parti più intime, il profumo dei capelli quando restano incollati al sudore del collo e della fronte, persino l’intonazione dei gemiti di piacere, eppure non so decifrare altro dell’espressione che ha appena assunto. Solo rabbia. E ricordo a malapena il suo nome.
«Sei senza speranze. Non so proprio cosa fare con te».
«Neanch’io», concludo, sollevando le spalle.
A questo punto si alza, dichiarando la sua resa. Al tavolo non siamo soli. Il nostro è un gruppo ben assortito, maschi a briglie sciolte in cerca di puro divertimento, cui si sono aggiunte lei e la sua compagna d’avventure, che però in questo momento se la sta spassando con l’Onorevole e non sembra intenzionata a mollare l’osso.
«Io vado. Tu che fai? Vieni con me?»
«Ti raggiungo a casa», le risponde l’altra, sollevando appena lo sguardo.
«Dove te ne vai?», le domanda il mio amico Federico.
La donna si allontana senza rispondergli, e rivolgendomi un’ultima occhiata di rimprovero, scompare tra la folla.
Era una “buia”. Così, per gioco, io e i miei amici chiamiamo le donne di una notte, quelle che alla luce del giorno restano nell’ombra.
«Svevo, stai diventando cattivo», mi fa notare ironico Federico. «Come una vecchia zitella», e gli altri lo seguono in una risata.
Io so che ha ragione. Il fatto è che sono in quella fase della vita in cui tutto a un certo punto diventa stantio. Tu devi averlo intuito. Le donne si accomodano sulla mia routine e io macino insofferenza. All’inizio mi adocchiano, e la cosa non può che lusingarmi. Credo mi percepiscano come un maschio dominante, di quelli che salvaguardano il nido. È una questione naturale, scritta nel DNA della nostra specie. Poi, un po’ alla volta, l’eccitazione cede il posto all’intolleranza, e non conta più il colore dei capelli o l’odore della pelle, la perfezione del sorriso o la tonicità delle cosce e del culo ben strizzato tra le mie dita. Le loro facce, botuliniche e bellissime, a un certo punto diventano ridondanti, superflue, e di conseguenza, come sostiene il mio migliore amico, io m’incattivisco.
L’aperitivo continua, sono certo che prima o poi qualche altra buia salirà sulla nostra giostra, per il momento mi basta sapere che il sedile accanto all’Onorevole è ben occupato, in attesa del piacevole su e giù che ho pagato per lui.
Siamo nel locale di una piazza di Roma dove Tu hai lunga memoria, e di fronte a noi si erge, imponente e dorato, il tempio di Adriano, ma nessuno sembra fare caso alla sua muta presenza, nessuno riesce a subirne il fascino, l’attenzione è rivolta a giochi di seduzione d’altro tipo.
Tra il viavai di convenevoli, intravedo un gruppo di ragazzine che sembra solo aver voglia di divertirsi: il rossetto vivace, i tacchi alti, l’avvenenza appena sbocciata e il cellulare che non smette mai di squillare. Si avvicinano ai loro amici più grandi, cinguettano, ridono, giocano con i capelli. Saranno appena maggiorenni, magari convinte che il Nasdaq sia una malattia neurologica e Bush una marca di detersivi, eppure mi eccitano. La pelle, i capelli, la delicatezza dei contorni, la prima passata di smalto sulle unghie sottili: c’è qualcosa di indescrivibile nella loro grazia, nel modo in cui si muovono disinvolte, inconsapevoli del fatto che non saranno mai più così belle e che presto si tormenteranno con inutili rimedi estetici nel tentativo di riuscirci.
All’improvviso ho l’impressione che il tempio mi osservi, come se si fosse preso la briga di ascoltare i miei pensieri. La mia attenzione viene catturata dalla sua eterna bellezza: sono secoli che prendi a morsi le sue maestose colonne, ma non sei riuscito a scalfirne il fascino che, al contrario, cresce a dismisura un morso dopo l’altro.