Calico Joe, romanzo di John Grisham edito da Mondadori, nel 2012, è un romanzo breve costruito ad arte per regalare al lettore una storia sui valori più autentici che rendono la vita degna di essere vissuta.
“Nell’estate del 1973 il paese stava lentamente emergendo dal trauma del Vietnam. Spiro Agnew era nei guai e alla fine sarebbe colato a picco. Il caso Watergate stava diventando sempre più scottante e aveva molto altro in serbo. Io avevo undici anni ed ero vagamente consapevole di quello che succedeva là fuori, nel mondo reale, ma ne ero meravigliosamente immune.”
Due uomini diversi per età, carattere, personalità. Ma accomunati dalla stessa professione: il baseball. Uno è Warren Tracey, donnaiolo, alcolista e pessimo padre che, ormai sul viale del tramonto, gioca le sue ultime partite nei Mets di New York, appesantito dagli anni e dalla frustrazione per una carriera che avrebbe voluto diversa. L’altro è l’astro nascente Joe Castle, ventun anni, originario di Calico Rock, nel profondo Arkansas, che sta mietendo successi nelle file dei Cubs di Chicago. La popolarità di Joe è alle stelle: il clamore dei suoi record e delle sue prodezze echeggia dalle tivù e dalle radio di tutto il paese, rendendolo in breve tempo l’idolo dei fan del baseball, primo fra tutti Paul Tracey, il figlio undicenne di Warren. È il 1973 quando suo padre si ritrova finalmente faccia a faccia con Joe sul diamante dello Shea Stadium di New York in una partita che passerà tristemente alla storia. Sotto gli occhi attoniti del figlio, Warren lancia una palla veloce che cambierà per sempre i destini dei due giocatori. Dopo trent’anni, Paul non ha dimenticato quell’incontro, che ha irrimediabilmente segnato la vita del formidabile atleta entrato nella Hall of Fame del baseball come Calico Joe. Ma Warren è gravemente ammalato e Paul, pur non avendo da tempo alcun rapporto con lui, vuole che i suoi ultimi giorni siano un’occasione per riscattarsi da un’esistenza mediocre e lo convince a compiere un gesto semplice ma memorabile.
“Il 13 luglio 1973, un venerdì, la prima pagina del supplemento sportivo del “Chicago Tribune” titolava Quattro su quattro. C’erano una grande foto in bianco e nero di Joe Castle e tre diversi articoli sulla sua storica prima partita. Tutta la città non parlava che del “ragazzino”.
Per gli amanti di questo autore le recensioni non sono molto positive, pur essendo denso di riflessioni inerenti il rapporto padre figlio, il libro non decolla, si perde tra le descrizioni dello sport in questione, molti scrivono che per chi non conosce il baseball è quasi incomprensibile.
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Il tumore al pancreas di mio padre è stato asportato la settimana scorsa nel corso di un intervento che è durato cinque ore ed è stato più difficile di quanto i chirurghi si fossero aspettati. I medici gli hanno poi comunicato la triste notizia che la maggior parte dei soggetti in condizioni simili alle sue ha un’aspettativa di vita non superiore ai novanta giorni. Dato che io non sapevo niente né dell’intervento né del tumore, non ero presente quando a mio padre è stata annunciata la sua sentenza di morte. Per lui la comunicazione non è mai stata una priorità. Dieci anni fa ha divorziato da una moglie e, prima che la novità filtrasse fino a me, se n’era già trovata un’altra.
Mi ha telefonato la moglie in carica – la numero cinque o sei -, la quale, dopo essersi ripresentata, mi ha messo al corrente dei più crudi dettagli del tumore e delle questioni collegate. Agnes mi ha poi spiegato che in quel momento mio padre non stava bene e non se la sentiva di parlare. Io ho ribattuto che lui non se l’è mai sentita di parlare, indipendentemente dalle condizioni di salute. Agnes mi ha invitato a trasmettere la notizia al resto della famiglia. Stavo per chiederle “Perché?”, ma non mi andava di litigare con quella povera donna.