Gli scardellini sono croccanti dolcetti della tradizione siciliana, vengono preparati per le ricorrenze di Ognissanti e della Commemorazione dei Defunti, infatti per l’occasione e per l’aspetto prendono il nome di “Ossa di morto”.
La leggenda dei scardellini
Una leggenda narra che nella notte tra l’ 1 e il 2 novembre i defunti tornino sulla terra portando come dono ai bambini scardellini, frutta martorana e giocattoli, che nell’insieme vengono chiamati “Morticini”. Una tradizione tutt’oggi mantenuta per far sì che i bambini non dimentichino chi non è più tra loro, per esorcizzare la paura della morte e aiutare gli adulti ad allontanare la tristezza nel ricordare chi non c’è più.
A Messina già da metà ottobre le vetrine delle pasticcerie si riempiono di coloratissima frutta martorana e ossa di morto.
Questi biscotti sono caratterizzati da una parte bianca ed una scura, sono molto duri, proprio spacca denti, anche se oggi i pasticceri riescono a farli più morbidi.
La pasta con cui vengono preparati si chiama “pasta garofano“, molto probabilmente un riferimento ai chiodi di garofano utilizzati per aromatizzare. Gli ingredienti sono semplici: zucchero, farina, acqua e sole, la ricetta originale prevede 2-3 giorni di riposo al sole, oggi questo passaggio viene spesso accelerato posizionando i biscotti su panni bagnati per 2-3 ore per poi essere infornati con notevole risparmio di tempo.
La creazione di questi biscotti sembra magica, in realtà in cottura lo zucchero si scioglie e si caramella separandosi dalla farina che formerà la parte bianca.
Ricetta Per gli Scardellini o Ossa di morto
500 g di farina
500 g di zucchero
250 di acqua
chiodi di garofano
cannella.
Fate uno sciroppo con lo zucchero, l’ acqua, i chiodi di garofano e la cannella.
Appena raggiunge il bollore, spegnere, aspettare un minuto e poi unire la farina mescolando bene.
Mettete in composto molliccio in una teglia a raffreddare leggermente, controllare la temperatura, appena potete manipolare il composto senza bruciarvi fare dei bastoncini da tagliare a pezzetti di 4 cm circa, sistemare su una teglia e fare asciugare a temperatura ambiente per 3 giorni.
Dopo sistemare ad una certa distanza gli uni dagli altri sulla teglia ed infornare in forno preriscaldato a 160° per 15 minuti.
IL GIORNO CHE I MORTI PERSERO LA STRADA DI CASA
di Andrea Camilleri
IL GIORNO CHE I MORTI PERSERO LA STRADA DI CASA
Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.da “Racconti quotidiani” di Andrea Camilleri