La mia vita non proprio perfetta, un romanzo rosa scritto da Sophie Kinsella, pubblicato a febbraio 2017, una commedia agrodolce che gioca con grande arguzia sul tema dell’apparire. Quante persone al mondo cercano di dare un’immagine di sé che non corrisponde affatto a quella vera, soprattutto sui social?
“Un giorno la mia vita sarà uguale ai miei post su Instagram. Un giorno.”
“Avevo dimenticato l’odore di Londra, il traffico, la folla.
Avevo dimenticato la sensazione di uscire dal metrò e affrontare l’implacabile sole di città, e trovarmi circondata da persone di ogni genere, e pensare: “Potrei fare qualunque cosa, andare ovunque, essere chiunque”.”
Katieè una ragazza di campagna di ventisei anni il cui sogno è diventare una londinese con la L maiuscola. Adora la vita della grande metropoli scintillante, ma il punto è che non se la può permettere.
Come tante persone della sua età fa fatica ad arrivare alla fine del mese, anzi della settimana, tra stage mal pagati e lavori a termine è sempre a corto di soldi, vive in uno spazio minuscolo in coabitazione con altri ragazzi con cui non va esattamente d’accordo, si veste solo con abiti presi al mercato, mangia come un uccellino, ma nonostante tutto ciò resiste.
Katie fa credere a tutti di avere una vita fantastica postando su Instagram foto patinate e modaiole, ma la verità è tristemente un’altra. Lei vorrebbe diventare come Demeter, anzi essere Demeter, la sua responsabile nella famosa agenzia di marketing in cui ora lavora, una quarantenne realizzata nella professione e nella vita, piena di glamour, sicura di sé e molto egocentrica.
Ma quando improvvisamente Katie rimane di nuovo senza lavoro, è costretta a tornare a vivere dai genitori nel Somerset. Mortificata, vede svanire il suo sogno di carriera, ma ancora non sa che la partita è tutta da giocare.
“Il mio corpo freme, trema tutto, non desidera altro che un’intera deliziosa notte ininterrotta con quest’uomo che mi trasforma in gelatina. Voglio il tocco delle sue mani. Ma voglio anche la sua voce. I suoi pensieri e le sue battute… le sue preoccupazioni e la sua tristezza… le sue teorie, le sue curiosità. Tutte quelle sue parti segrete che non immaginavo esistessero.”
Le recensioni sono molto positive per gli amanti del genere, il libro risulta divertente, ironico e scorrevole, molto leggero, ma con una grande verità di sottofondo.
Lo consiglio a chi ama questo genere narrativo da Chick lit estremo.
Primo: potrebbe andare peggio. Ci sono pendolari a cui va molto peggio, e devo tenerlo sempre presente. Secondo: ne vale la pena. Io voglio vivere a Londra. Voglio questa vita ed essere una pendolare fa parte del gioco. È una componente del Pacchetto Londra, come la Tate Modern.
(Veramente non assomiglia affatto alla Tate Modern. Esempio sbagliato.)
Mio padre dice sempre: se non riesci a correre con i cani più grossi, resta a casa. E io voglio correre con i cani grossi. Sono qui per questo.
Comunque, la passeggiata di venti minuti fino alla stazione è piacevole. Direi molto piacevole. L’aria grigia di dicembre è come ferro nei miei polmoni, ma mi sento bene. La giornata è cominciata. Sono partita.
Il mio cappotto è bello caldo, anche se l’ho pagato 9 sterline e 99 al mercatino delle pulci. Aveva l’etichetta CHRISTIN BIOR, ma l’ho staccata appena sono arrivata a casa. Non si può lavorare dove lavoro io e avere un cappotto con l’etichetta CHRISTIN BIOR. Si può avere un autentico Christian Dior vintage. O qualcosa di giapponese. O magari nessuna etichetta perché ti fai i vestiti da sola utilizzando stoffe rétro che scovi al mercato dell’antiquariato.
Ma non CHRISTIN BIOR.
A Catford Bridge, comincio a sentire la tensione. Oggi non voglio assolutamente arrivare in ritardo. La mia capa ha già buttato lì qualche frasetta stizzita su certa gente che “si presenta quando le pare”, perciò sono uscita venti minuti prima, casomai fosse una brutta giornata.
E lo vedo già: non è brutta, è orribile.
Di recente la nostra linea ferroviaria ha avuto un sacco di problemi e continuano a cancellare i treni senza avvertire. Il fatto è che a Londra durante le ore di punta non si possono cancellare i treni. Che cosa dovrebbero fare le persone che su quel treno ci vogliono salire? Evaporare?
Mentre supero i tornelli, vedo la risposta. Sono tutti lì sulla banchina, che cercano di leggere il pannello delle informazioni, e si spintonano, scrutano i binari, si guardano male e si ignorano nello stesso tempo.
Oddio. Devono aver cancellato almeno due treni, perché a occhio qua ci sono i passeggeri per tre, in attesa del prossimo, ammassati lungo i binari in posizioni strategiche. Siamo a metà dicembre, ma non c’è traccia di spirito natalizio. Tutti sono troppo tesi e infreddoliti e con la sindrome del lunedì mattina. L’unico tocco vivace consiste in due misere lucine e una serie di annunci che riguardano i trasporti nel periodo festivo.
Chiamando a raccolta tutto il mio coraggio, mi unisco alla folla e sospiro di sollievo vedendo arrivare il treno. Non salirò su questo (prendere il primo treno? Sarebbe ridicolo). I passeggeri sono schiacciati contro i finestrini, e quando si aprono le porte scende soltanto una donna, che emerge dalla lotta per districarsi tutta stazzonata.
Nonostante questo tutti si buttano avanti, e in qualche modo una gran quantità di gente riesce a infilarsi nel treno, e quando riparte io mi trovo molto più vicina al bordo della banchina. Ora non mi resta che mantenere la posizione e non permettere a quel tizio scheletrico con un sacco di gel in testa di sgattaiolare davanti a me. Mi sono tolta gli auricolari per sentire gli annunci, e resto piantata lì in vigile attesa.
La vita del pendolare a Londra è sostanzialmente una guerra. È una costante campagna di conquista del territorio: avanzare di pochi centimetri, non rilassarsi mai neanche per un istante. Perché se ti rilassi, qualcuno ti passerà davanti. O sopra.