Il 26 maggio è stata selezionata la cinquina finalista della 55esima edizione del Premio Campiello, premio letterario, istituito nel 1962 per volontà degli Industriali del Veneto, che viene assegnato a opere di narrativa italiana.
Durante la selezione la Giuria ha inoltre annunciato il vincitore del Premio Campiello Opera Prima, un riconoscimento attribuito dal 2004 ad un autore al suo esordio letterario.
Il premio è stato assegnato al romanzo Un buon posto dove stare di Francesca Manfredi (La nave di Teseo).
I protagonisti di questi undici racconti sono persone comuni immerse in situazioni all’apparenza ordinarie ma che, all’interno, nascondono inquietudine, mistero e ambiguità. Al centro, l’ambiente domestico: l’ultima notte di una coppia nell’appartamento che sta per lasciare e uno sconosciuto, fuori, che osserva; la prima giornata di una famiglia nella casa nuova, alle prese con vicini, barbecue e piscine gonfiabili; un anziano senza memoria che si presenta alla porta; un padre che esce per un’escursione coi figli e scompare. Che sia la casa d’infanzia o un luogo sconosciuto, una casetta sull’albero o un corridoio buio, gli spazi di questi racconti rappresentano un punto cruciale, una soglia verso l’ignoto che, una volta varcata, rivela dettagli e situazioni incognite. Come una porta chiusa da sempre che spalancandosi di colpo mostra qualcosa che non si conosceva, o qualcosa che si è scelto di non conoscere.
La Giuria dei Letterati ha votato tra i 270 libri ed ha selezionato la cinquina finalista composta da:
Qualcosa sui Lehman di Stefano Massini (Mondadori).
Il romanzo racconta la storia dei fratelli ebrei tedeschi Lehman, del loro arrivo negli USA, a metà Ottocento, e della fondazione della loro banca americana, catastroficamente fallita nel 2008, dando il via al crack dell’economia mondiale. Con una scrittura sorprendentemente tridimensionale, Massini racconta la storia di tre fratelli e di una famiglia messa in scena di padre in figlio, fra fidanzamenti, riti ebraici, incendi e formidabili intuizioni economiche: a partire dall’apertura di un piccolo negozio di stoffe in Alabama, per consolidarsi fino a gestire i fondi pubblici per la ricostruzione del sud devastato dalla guerra di Secessione. Poi sono gli anni della ferrovia e del petrolio. E poi ancora fino all’ascesa dei nuovi sistemi di potere economico-finanziario.
La città interiore di Mauro Covacich (La nave di Teseo).
Trieste, 4 aprile 1945. Un bambino di sette anni trasporta una sedia, tra le macerie, verso la sede provvisoria del comando alleato. Un fotografo lo immortala per la prima pagina de “Il nostro avvenire”, edizione italiana di un quotidiano sloveno – ora non più clandestino – accanto a una dichiarazione di Tito sulla prossima “fratellanza dei popoli”. Trieste, 5 agosto 1972. Gli stessi Feddayn di Settembre Nero che di lì a poco sequestreranno e trucideranno gli atleti israeliani alle olimpiadi di Monaco, hanno fatto saltare due cisterne di petrolio. Quei terroristi hanno voluto iniziare da Trieste, ancora divisa in zona A, italiana, e zona B, controllata dall’amministrazione jugoslava. Un bambino, Mauro Covacich, tra le gambe di suo padre, il bambino che trascinava la sedia ventisette anni prima, guardando le colonne di fumo dalle alture carsiche sopra la città chiede, in dialetto triestino: “papà semo in guerra?”
La notte ha la mia voce di Alessandra Sarchi (Einaudi).
Come può prendere parola il corpo di una donna che vive in sedia a rotelle? Paralizzata a seguito di un incidente, la protagonista conosce in ospedale Giovanna, un incontro che la mette a tu per tu con le proprie inconfessabili paure ma anche con un’altra e diversa possibilità di affrontarle. Suadente, decisa, piena di esuberanza, Giovanna sembra avanzare sulle miserie quotidiane con sensualità regale, come un felino. Per questo l’io narrante la battezza Donna gatto, e dentro di sé la chiama così persino quando scopre che non cammina. La Donna gatto diventa lo specchio rovesciato in cui guardarsi. Mentre lei spia il proprio corpo che non riconosce più, la Donna gatto continua ostinatamente a immaginare il mondo attraverso il desiderio, proprio e altrui. Lavora di notte in una chat erotica, simulando con la voce il corpo che non possiede più. Lo spazio chiuso delle linee telefoniche a pagamento, dove la protagonista trascorre una notte accanto alla sua amica, si rivela per lei l’unico in cui può ripercorrere la propria storia. Una storia dove rifiuto e accettazione si confondono, dove ogni grazia può diventare condanna.
L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio (Einaudi).
Ci sono romanzi che toccano corde così profonde, originarie, che sembrano chiamarci per nome. È quello che accade con L’Arminuta fin dalla prima pagina, quando la protagonista, con una valigia in mano e una sacca di scarpe nell’altra, suona a una porta sconosciuta. Ad aprirle, sua sorella Adriana, gli occhi stropicciati, le trecce sfatte: non si sono mai viste prima. Inizia così questa storia dirompente e ammaliatrice: con una ragazzina che da un giorno all’altro perde tutto – una casa confortevole, le amiche più care, l’affetto incondizionato dei genitori. O meglio, di quelli che credeva i suoi genitori. Per “l’Arminuta” (“la Ritornata”), come la chiamano i compagni, comincia una nuova e diversissima vita. La casa è piccola, buia, ci sono fratelli dappertutto e poco cibo sul tavolo. Ma c’è Adriana, che condivide il letto con lei. E c’è Vincenzo, che la guarda come fosse già una donna. E in quello sguardo irrequieto, smaliziato, lei può forse perdersi per cominciare a ritrovarsi. Donatella Di Pietrantonio affronta il tema della maternità, della responsabilità e della cura, da una prospettiva originale e con una rara intensità espressiva. La sua scrittura ha un timbro unico, una grana spigolosa ma piena di luce, capace di governare una storia incandescente in cui l’accettazione di un doppio abbandono è possibile solo tornando alla fonte, al corpo, a se stessi. E’ inoltre capace di trasportarci lì, in quell’Abruzzo poco conosciuto, una terra ruvida e aspra che improvvisamente si accende col riflesso del mare.
La ragazza selvaggia di Laura Pugno (Marsilio).
“Tessa aprì la porta sul buio del bosco”: così comincia “La ragazza selvaggia”, e davvero il quinto romanzo di Laura Pugno è tutto uno spalancarsi di porte sul buio: sul buio del bosco; sul buio del dramma della famiglia Held – la madre alienata dopo la sparizione della figlia adottiva Dasha e l’incidente in seguito al quale Nina, la gemella, vive in stato vegetativo; sul buio di Nicola Varriale, il cui padre generoso ed entusiasta – socio di Held in affari con la riserva naturale sperimentale di Stellaria – si è gettato ubriaco dal balcone; sul buio, finalmente, della protagonista Tessa, biologa, che vive in un container ai margini della riserva conducendo osservazioni e studi: una donna che ormai “abita la solitudine come un altro corpo”. A lei toccherà la sorte di ritrovare casualmente Dasha, vissuta anni nel bosco e ormai del tutto selvaggia. Ci interroga, questo romanzo che può essere descritto come una storia di revenant, o il racconto d’un groviglio di vite umane osservato con una compassione senza lacrime. Ci interroga su che cosa è – attorno a noi, in noi – ciò che chiamiamo “natura”; sui confini tra l’umano e l’animale; sul senso di legami familiari frutto di scelte, o del caso, e non della carne.