Uno studio in rosso è il primo romanzo di Sir Arthur Conan Doyle, un medico di periferia. Fu pubblicato nel 1887, qui fanno la loro prima apparizione due famosissimi personaggi letterari, Sherlock Holmes, il detective per antonomasia, la figura più celebre della storia del giallo ed il dottor Watson, il compagno di avventure, sotto le cui modeste spoglie si celava l’alter ego dell’autore.
“Nella matassa incolore della vita, corre il filo rosso del delitto, e il nostro compito consiste nel dipanarlo, nell’isolarlo, nel metterlo in luce istante dopo istante.”
Per creare il suo personaggio, Arthur Conan Doyle, pare che si ispirò al dottor Joseph Bell, di cui fu allievo, invece per il nome scelse quelli di due ispettori William Sherlock e James Sherlock, che sembra fossero alla ribalta della cronaca nera a quei tempi, per il cognome scelse quello di un autore molto amato, Oliver Wendell Holmes.
La prima parte della storia è ambientata a Londra e viene narrata da Watson, un uomo intelligente e di ottima cultura, dotato di una grande moralità ed un forte senso dell’onore, rappresenta la borghesia londinese della tarda età vittoriana, nonostante le indubbie capacità è laureato in medicina e dotato di grande abilità narrativa.
In questa storia si assiste al primo incontro avvenuto all’incirca nel 1878 tra Sherlock Holmes e John Watson, un ex medico militare appena tornato dalla guerra in Afghanistan a causa di ferite alla spalla e al ginocchio. Watson è in cerca di un alloggio a buon prezzo e il vecchio amico e collega Stamford gli parla di Sherlock Holmes che sta cercando qualcuno per dividere l’affitto di un appartamento al 221B di Baker Street.
Così Stamford porta Watson al laboratorio dove Holmes sta compiendo degli esperimenti con un reagente per il rilevamento della emoglobina. Watson accetta la proposta anche se nota alcune stranezze nel suo futuro coinquilino.
“Ci trovammo il giorno seguente, come d’accordo, e andammo a vedere l’appartamento di cui mi aveva parlato al n. 221B di Baker Street. Si trattava di due comode camere da letto e di un unico ampio arioso salotto graziosamente arredato, su cui si aprivano due grandi finestre. Insomma, le stanze erano tanto attraenti e la richiesta economica, da dividersi a metà, cosí conveniente, che l’affare fu subito concluso e noi prendemmo immediatamente possesso dell’alloggio.
Quella sera stessa mi trasferii lí con tutte le mie cose dall’albergo, e la mattina successiva arrivò Sherlock Holmes, seguito da varie casse e bauli.”
Per la prima volta facciamo la conoscenza con il mitico Sherlock Holmes, un investigatore dotato di grande acume e spiccate capacità deduttive, mostra interessi per vari rami della scienza e per la storia criminale. La sua vita è piuttosto vuota, non ha famiglia, nessuna donna e non ha amici oltre a Watson. Sbarca il lunario facendo il consulente per due investigatori di Scotland Yard, Lestrade e Gregson. E’ un tipo decisamente “particolare”, fuma la pipa, ama suonate il violino, fare esperimenti scientifici e uso di stupefacenti.
“Superava il metro e ottanta di statura, ed era tanto magro che sembrava ancora più alto. Aveva gli occhi acuti e penetranti, salvo in quei periodi di torpore di cui ho detto; il naso, affilato e aquilino, conferiva al viso un’espressione vigile e determinata. Anche il mento, pronunciato e di forma quadrata, gli dava l’aria di un uomo determinato. Le sue mani erano sempre macchiate d’inchiostro e di sostanze chimiche, eppure possedeva una straordinaria delicatezza nel tatto, come avevo potuto frequentemente notare vedendolo manipolare i suoi fragili strumenti di indagine scientifica.”
“Non era affatto difficile aver a che fare con uno come Holmes. Aveva abitudini tranquille e regolari. Di rado restava alzato oltre le dieci di sera, e invariabilmente al mattino aveva già fatto colazione ed era uscito prima che io mi alzassi. A volte passava la giornata al laboratorio di chimica; altre in sala anatomica, e di quando in quando si dedicava a lunghissime passeggiate, spingendosi sino ai quartieri più miserabili della città.
La sua energia era inesauribile quando era sopraffatto da accessi di superlavoro; ma, di tanto in tanto, una sorta di reazione opposta si impossessava di lui. Allora, per giorni e giorni, se ne stava disteso sul divano del salotto dal mattino alla sera, pronunciando a malapena qualche monosillabo in una semitotale immobilità. In quelle occasioni notavo nei suoi occhi un’espressione vuota e assente, tale da farmi sospettare che facesse uso di qualche stupefacente, se non avessero contrastato con tale ipotesi la moderazione e l’igiene nel suo stile di vita.”
Il romanzo si incentra sul misterioso caso di omicidio di un uomo, Enoch J. Drebber, avvelenato in un’abitazione abbandonata. Sul luogo del delitto sono stati trovati una fede da donna, la parola Rache (in tedesco significa vendetta) scritta col sangue e un biglietto con la scritta “J. H. è in Europa”.
“A questo mondo, quello che si fa non ha molta importanza», ribatté amaramente il mio amico. «Il problema è, cosa si può far credere alla gente di aver fatto? Non importa», riprese più allegramente, dopo una pausa. «Non mi sarei perduto questa indagine a nessun costo. Non ricordo un caso migliore di questo. Semplice com’era, presentava molti aspetti altamente istruttivi.»”
Nella seconda parte vengono spiegati i fatti che hanno portato agli omicidi. Il narratore cambia, i fatti vengono raccontati da uno spettatore esterno e ci troviamo vent’anni prima nell’Utah, negli Stati Uniti, dove ci viene raccontata la storia di Lucy e del suo padre adottivo John Ferrier, salvati da una comitiva di mormoni a cui si sarebbero uniti successivamente.
“Nella zona centrale del vasto continente Nord-Americano si stende un deserto arido e minaccioso che, per lunghi anni, servì da barriera contro l’avanzare della civilizzazione. Dalla Sierra Nevada al Nebraska e dal Fiume Yellowstone, nel Nord, fino al Colorado, nel Sud, tutto è desolazione e silenzio. Ma anche in quell’area tetra la Natura cambia d’umore. Ci presenta picchi altissimi incappucciati di neve e vallate oscure e tetre. Fiumi veloci che scorrono tumultuosi nel fondo dei canon rocciosi e frastagliati; e distese sconfinate coperte, d’inverno, da una coltre di neve e grigiastre, d’estate, per la sabbia alcalina. Un paesaggio, comunque, con la caratteristica comune di essere sempre sterile, inospitale e squallido.”
In questo primo giallo, Arthur Conan Doyle ci mostra da subito tutte le sue qualità, genialità assoluta, ma per apprezzarlo di più bisogna considerare anche il contesto in cui fu scritto, ai tempi non esisteva questo modo di scrivere, è stato un romanzo originale e sperimentale che ha buttato le basi per questo genere letterario e la “Scienza della deduzione” diventerà la protagonista per gli anni a seguire.
Oggi possiamo dire che Sherlock Holmes vive di vita propria, come fosse esistito realmente e leggere del primo incontro tra lui e Watson è emozionante. La narrazione scorre fluida tra mezze verità e indizi, non ho molto apprezzato il lungo flashback, mi ha dato l’impressione di essere improvvisamente catapultata in un altro libro. Ho amato invece l’atmosfera, si può quasi sentire l’odore della pipa, l’umidità di una Londra ottocentesca con il rumore delle carrozze, il fumo che fuoriesce dalle case e si mescola ad un cielo grigio. Non posso che consigliare la lettura, soprattutto agli amanti del giallo classico.
“La sua ignoranza era notevole quanto la sua cultura. In fatto di letteratura contemporanea, di filosofia e di politica, sembrava che Holmes sapesse poco o nulla. Una volta mi accadde di citare Thomas Carlyle. Mi chiese nel modo più ingenuo chi era e cosa avesse fatto. Ma la mia meraviglia giunse al colmo quando scoprii casualmente che ignorava la teoria di Copernico nonché la struttura del sistema solare. Il fatto che un essere civile, in questo nostro XIX secolo, non sapesse che la Terra gira attorno al Sole mi pareva così straordinario che stentavo a capacitarmene.
Sembra sbalordito – disse Holmes, e sorrise osservando la mia espressione. – Ora che mi ha insegnato queste cose, farò del mio meglio per dimenticarle.
– Per dimenticarle?
– Vede – mi spiegò – secondo me, il cervello d’un uomo, in origine, è come una soffitta vuota: la si deve riempire con mobilia di nostra scelta. L’incauto vi immagazzina tutte le mercanzie che si trova tra i piedi: le nozioni che potrebbero essergli utili finiscono col non trovare più il loro posto, o, nella migliore delle ipotesi, si mescolano e si confondono con una quantità d’altre cose, cosicché diviene assai difficile reperirle. Viceversa, lo studioso accorto seleziona accuratamente ciò che immagazzina nella soffitta del suo cervello. Ci mette soltanto gli strumenti che possono aiutarlo nel lavoro, ma di quelli tiene un vasto assortimento, e si sforza di sistemarli nell’ordine più perfetto. È un errore illudersi che quella stanzetta abbia le pareti elastiche e possa ampliarsi a dismisura […]. Quindi, quasi tutte le cognizioni che possedeva avevano per lui una specifica utilità.”
Incipit del libro Uno studio in rosso
Capitolo primo. Il mio amico Sherlock Holmes
Nell’anno 1878, conseguita la laurea in medicina alla London University, mi recai a Netley per seguire il corso di specializzazione come chirurgo militare. Completati i miei studi, fui regolarmente distaccato presso il Quinto Corpo Fucilieri del Northumberland in qualità di assistente chirurgo. All’epoca, il reggimento era di stanza in India e, prima che io potessi raggiungerlo, era scoppiato il secondo conflitto afghano. Sbarcando a Bombay, venni a sapere che il mio reparto aveva già attraversato i passi ed era ormai all’interno del territorio nemico. Molti altri ufficiali si trovavano, comunque, nella mia stessa situazione. Seguimmo quindi il reparto e riuscii a raggiungere sano e salvo Candahar, dove mi ricongiunsi al mio reggimento assumendo subito le mie nuove funzioni.
A molti la campagna afghana portò onori e promozioni; ma a me non portò che sfortune e calamità. Venni trasferito dalla mia brigata e assegnato a quella dei Berkshire, con i quali presi parte alla disastrosa battaglia di Mainwand; fui ferito alla spalla da un proiettile Jezail che mi fracassò l’osso procurandomi una lesione superficiale all’arteria succlavia. Sarei caduto nelle mani dei sanguinari Ghazi se non fosse stato per la devozione e il coraggio del mio attendente Murray il quale mi caricò in groppa a un cavallo da soma e riuscì a portarmi in salvo fino nelle retrovie inglesi.
Spossato dal dolore e indebolito dagli stenti così a lungo sopportati, venni trasportato con un lungo convoglio di feriti alla base ospedaliera di Peshawar. Mi ero ripreso, ed ero già in condizioni di aggirarmi per le corsie e perfino di prendere un po’ di sole nella veranda, quando fui colpito da quella febbre enterica che è la maledizione dei nostri possedimenti indiani. Per mesi, rimasi in condizioni disperate e quando finalmente fui dichiarato fuori pericolo ed entrai in convalescenza, ero talmente debole ed emaciato che una commissione medica decise per il mio immediato rientro in Inghilterra. Mi imbarcarono quindi su una nave per trasporto truppe, l’Orontes, e un mese dopo sbarcai sul molo di Portsmouth con la salute irrimediabilmente rovinata ma col permesso, graziosamente concessomi dal governo, di impiegare i successivi nove mesi a cercare di rimetterla in sesto.
Non avevo nessun parente in Inghilterra ed ero quindi libero come l’aria – o, meglio, libero quanto può esserlo un uomo con una rendita di undici scellini e mezzo al giorno. Date le circostanze, ovviamente fui attratto da Londra, quel grande pozzo nero dal quale tutti i perdigiorno e gli sfaccendati dell’Impero vengono irresistibilmente inghiottiti. E a Londra rimasi per qualche tempo, in una pensione dello Strand, conducendo un’esistenza scomoda e vuota, spendendo più liberalmente di quanto avrei dovuto il poco denaro che avevo a disposizione. Lo stato delle mie finanze si fece, alla fine, così allarmante da non lasciarmi che due alternative: o abbandonare la metropoli e confinarmi in qualche paesino di campagna, o cambiare radicalmente il mio tenore di vita. Optai per questa seconda soluzione e cominciai a entrare nell’ordine di idee di abbandonare l’albergo e stabilirmi in un alloggio meno pretenzioso e meno dispendioso.
Il giorno stesso in cui ero giunto a questa conclusione, me ne stavo al Criterion Bar quando mi sentii battere su una spalla e, voltandomi, riconobbi il giovane Stamford che era stato mio assistente quando ero medico a Bart. Vedere una faccia amica nella nostra giungla londinese è davvero una piacevole sorpresa per chi è solo. A dir la verità, in passato non c’era mai stata fra noi un’amicizia molto stretta ma in quel momento lo salutai con entusiasmo ed egli, a sua volta, sembrò felicissimo di vedermi. Nell’impeto della mia gioia, lo invitai a pranzo all’Holborn e ci arrivammo insieme in una vettura di piazza.
«Cosa le è successo, Watson?», mi domandò francamente sorpreso, mentre la carrozza percorreva rumorosamente le strade affollate di Londra. «E magro come un chiodo e nero come un tizzone.»
Gli feci un resoconto delle mie vicissitudini che durò per tutto il tempo del tragitto.
«Poveraccio!», disse in tono di commiserazione dopo avere ascoltato le mie peripezie. «E adesso, cosa conta di fare?»
«Cercarmi un alloggio», risposi. «Cercar di risolvere il problema se è possibile trovare una casa confortevole a un prezzo ragionevole.»
«E strano», osservò il mio compagno. «E la seconda persona, oggi, che ha usato questa espressione.»
«E la prima chi era?», domandai.