Mondo senza fine è un romanzo storico di Ken Follett, pubblicato nel 2007, è il seguito di “I pilastri della Terra“, ambientato circa 200 anni dopo, nella stessa città immaginaria di Kingsbridge, i personaggi sono i discendenti dei protagonisti del precedente libro, in particolare di Tom il costruttore e di Jack Jackson, mastro costruttore della cattedrale.
“Siamo capaci tutti di essere buoni quando non ci costa nulla” diceva. “Ma quello non conta. È quando hai una voglia tremenda di comportarti male, quando stai per guadagnare una fortuna grazie a un affare disonesto, o stai per baciare le belle labbra della moglie del vicino, o stai per mentire per cavarti da un grosso guaio… è in quei momenti che servono le regole. L’integrità è come una spada” ripeteva “non bisognerebbe sventolarla finché non si è pronti a metterla alla prova.”
Le vicende ruotano attorno alla costruzione di un ponte e al completamento della cattedrale di Kingsbridge e ripercorrono i principali fatti storici del XIV secolo inglese, dalla deposizione del re Edoardo II per mano della moglie Isabella e del suo amante Roger Mortimer, fino alla peste nera e alla guerra dei cent’anni.
“È un po’ come quel difetto nella navata sud. Se non riesci a vederlo, può darsi che stia agendo in modo invisibile per danneggiarti… e tu lo saprai solo quando tutto ti crollerà addosso.”
È il 1327. Il giorno di Ognissanti, quattro bambini si allontanano di nascosto dal priorato di Kingsbridge mentre sono in corso i festeggiamenti. Il gruppo, composto da un piccolo genio, un bulletto, una ladruncola e una ragazzina dalle grandi ambizioni, assiste per caso nella foresta all’uccisione di due uomini. Da allora le vite di questi ragazzi saranno indissolubilmente legate tra loro e, una volta adulti, conosceranno amore, avidità, ambizione e vendetta. Vivranno momenti di prosperità e carestia, malattia e guerra. Dovranno fronteggiare la più terribile epidemia di tutti i tempi: la peste. Uno di loro viaggerà per il mondo per poi tornare a casa, un altro diventerà un nobiluomo potente e corrotto, una ragazza inseguirà l’amore impossibile e un’altra sfiderà il potere della Chiesa. Ma su ciascuno resterà l’ombra di quell’inspiegabile omicidio di cui sono stati testimoni in quel fatidico giorno della loro infanzia.
“Caris notò che Merthin ne studiava la struttura. Conosceva quella sue espressione: si stava domandando come facesse il ponte a reggersi. Spesso lei lo sorprendeva a fissare qualcosa a quel modo, di solito nella cattedrale, ma talvolta persino davanti a una casa o a uno spettacolo naturale, come un biancospino in fiore o uno sparviero in volo. Assolutamente immobile, con lo sguardo acceso e attento quasi a illuminare un posto buio, cercava di comprendere ciò che vedeva. Quando lei gli chiedeva spiegazioni, diceva che stava tentando di vedere l’interno delle cose.”
Senza dubbio un altro capolavoro di ken Follet, anche se, a mio parere I pilatri della terra è superiore. La struttura del romanzo è simile al precedente, ma si percepisce che manca qualcosa, la scrittura è più costruita e meno ispirata. Si legge in modo scorrevole e questo aiuta ad andare avanti nella lettura, soprattuto nelle parti un po’ troppo prolisse se pur bellissime. Ogni parola scritta serve allo sviluppo dell’intreccio e nonostante la quantità dei personaggi e la mole non indifferente è un romanzo storico da leggere sicuramente, però sempre dopo i Pilastri della terra.
Nel 2012 è stata tratta dal libro una miniserie di 8 puntate.
Gwenda aveva otto anni, ma il buio non le faceva paura.
Quando aprì gli occhi non vide nulla, però non fu questo a spaventarla. Sapeva di trovarsi al priorato di Kingsbridge, nel lungo edificio di pietra chiamato ospitale, stesa a terra su un giaciglio di paglia. Accanto a lei era sdraiata la madre; dal tiepido profumo, Gwenda comprese che stava allattando il piccolo, ancora senza nome. Vicino alla mamma c’erano il papà e poi il fratello maggiore Philemon, di dodici anni.
L’ospitale era affollato, e benché la bambina non riuscisse a vedere le altre famiglie coricate sul pavimento, stipate come pecore in un recinto, percepiva l’odore acre dei loro corpi caldi. All’alba sarebbe stato Ognissanti, che quell’anno cadeva di domenica e quindi era un giorno particolarmente benedetto. La sera che lo precedeva, la vigilia, era un momento pericoloso in cui gli spiriti maligni circolavano liberamente. Al pari della famiglia di Gwenda, centinaia di persone erano accorse a Kingsbridge dai villaggi vicini per trascorrere la festa entro i confini consacrati del priorato e assistere all’alba al servizio religioso.
Come tutte le persone di buonsenso, Gwenda temeva gli spiriti maligni, ma ancor più la terrorizzava quel che avrebbe dovuto fare durante la funzione.
Scrutò nell’oscurità cercando di non pensarci. Sapeva che nella parete di fronte a lei c’era una finestra ad arco priva di vetri – solo gli edifici più importanti avevano vetri alle finestre -, con appena una tenda di lino a riparare dalla fredda aria autunnale. Tuttavia non scorse alcun bagliore grigiastro nel punto in cui doveva trovarsi l’apertura, e se ne rallegrò. Sperava che il mattino tardasse ancora.
Non c’era nulla da vedere, ma molto da ascoltare. La paglia che copriva il pavimento frusciava in continuazione, ogni volta che la gente si agitava o cambiava posizione mentre dormiva. Un bimbo si mise a piangere, forse svegliato da un brutto sogno, e fu subito tranquillizzato da un affettuoso bisbiglio. Di tanto in tanto qualcuno farfugliava una mezza parola nel sonno. Da qualche parte arrivarono i rumori di due persone che stavano facendo le cose che tutti i genitori facevano ma di cui non parlavano mai, quello che Gwenda chiamava “grugnire”, perché non sapeva come definirlo altrimenti.
Molto presto scorse una luce. Dalla porta a est del lungo stanzone, dietro l’altare, entrò un monaco con una candela in mano; l’accostò a un accenditoio posto lì accanto e con quello fece ardere le lampade alle pareti. Ogni volta la sua lunga ombra si proiettava sul muro come un riflesso, mentre l’accenditoio incrociava la propria sullo stoppino del lume.
La luce crescente illuminò le file di corpi indistinti raggomitolati a terra, avvolti in mantelli di lana grezza o addossati ai vicini in cerca di calore. I malati occupavano i pagliericci accanto all’altare per trarre il massimo beneficio dalla sacralità del luogo. Sul lato opposto, una scala conduceva al piano superiore, dove erano alloggiati i nobili in visita: in quella occasione, il conte di Shiring con alcuni membri della sua famiglia.
Il monaco si sporse verso Gwenda per accendere il lume sopra la sua testa e sorrise nell’incrociarne lo sguardo. Lei ne studiò il viso alla tremula luce e riconobbe in lui frate Godwyn. Era giovane e bello, e la notte precedente aveva rivolto a Philemon parole gentili.
Vicino a Gwenda c’era un’altra famiglia del suo villaggio: Samuel, un prospero contadino con un vasto podere, la moglie e i due figli, il più piccolo dei quali, Wulfric, era un bambino pestifero di sei anni, convinto che lanciare ghiande alle femmine e poi darsela a gambe fosse la cosa più divertente del mondo.
La famiglia di Gwenda non era ricca. Il padre non possedeva terre e faceva il bracciante per chiunque fosse disposto a pagarlo. Il lavoro non mancava mai durante l’estate, ma dopo il raccolto, quando cominciavano i primi freddi, spesso pativano la fame.
Per questo lei era costretta a rubare.