Il terminale uomo è un romanzo di fantascienza scritto da Michael Crichton, pubblicato nel 1972, affronta il tema dei limiti e delle possibilità della scienza, interrogandosi sulla legittimità di un intervento volto a subordinare un essere umano alle macchine inventate dall’uomo.
“Un fiammifero può appiccare un incendio, ma quando l’incendio è in corso per fermarlo non serve spegnere il fiammifero. Il problema non è più il fiammifero. E’ il fuoco.”
Il “terminale uomo” è Harry Benson, un programmatore di computer ossessionato dall’idea che le macchine vogliano impadronirsi del mondo, affetto da una forma di epilessia che lo induce periodicamente a raptus di violenza omicida, seguiti da amnesia. Contro il parere dello psichiatra, Janet Ross, una equipe di medici, sotto le direttive dei dottori Morris e Ellis, tenta di mettere sotto controllo il suo cervello mediante l’applicazione di una serie di elettrodi controllati da un computer che avrebbero dovuto bloccare gli attacchi epilettici sul nacsere. Ma la speranza di poter prevedere e gestire il comportamento di un essere umano si rivela drammaticamente vana, si riuscirà a fermare le terribili conseguenze di questo esperimento?
“I più potenti controllori mentali del mondo sono i genitori, e sono anche quelli che fanno più danno.”
Il libro fa parte del genere thriller fantascientifico ed è un po’ datato, è davvero un peccato non averlo letto nel 1972, nel suo tempo, quando era avveniristico, quando ancora non esistevano il cellulari, quando i personal computer erano, forse, nel mondo dei sogni.
Non è certamente il migliore di Crichton, e se voleste conoscere questo autore consiglio di non cominciare da quest’opera, decisamente intrigante, ma carente in parecchi aspetti, soprattutto sulla caratterizzazione dei personaggi e sulla costruzione della suspance, tutto è scontato. Lo consiglio però agli amanti del genere e dell’autore, come me.
“Controllo mentale.
Cos’altro sono le convenzioni sociali? L’abitudine di stringere la mano a chi si incontra? Di guardare avanti in ascensore? Di passare sulla sinistra? Di prendere il bicchiere del vino con la destra?
Centinaia di piccole convenzioni di cui la gente ha bisogno per stereotipare l’interazione sociale; eliminatene una sola e produrrete un’angoscia insopportabile.
La gente ha bisogno del controllo mentale. E’ felice di averlo.”
Dal libro e stato tratto il film L’uomo terminale, del 1974, diretto da Mike Hodges, con Jill Clayburgh e Matt Clark.
9 marzo 1971 – Ammissione
1
Scesero al pronto soccorso a mezzogiorno e si sedettero sulla panca appena oltre la porta girevole che si apriva sul parcheggio delle ambulanze. Ellis, il più anziano, era nervoso, preoccupato, distante.
Invece Morris, il più giovane, era calmissimo: mangiò una caramella.
Ne appallottolò l’involucro infilandoselo nella tasca della giacca bianca.
Di lì vedevano la luce del sole che da fuori batteva sul grande cartello con la scritta Pronto soccorso, e su quello più piccolo: Parcheggio riservato alle ambulanze. In lontananza si sentirono delle sirene.
«E’ lui?», domandò Ellis.
Morris guardò l’orologio. «Non credo. E’ troppo presto».
Rimasero seduti ad ascoltare le sirene che si avvicinavano. Ellis si tolse gli occhiali e se li pulì con la cravatta. S’avvicinò un’infermiera, di cui Morris non conosceva il nome, e disse allegramente: «Il comitato d’accoglienza?».
Ellis la guardò storto. Morris disse: «Lo porteremo subito dentro.
Avete già la sua cartella?».
«Credo di sì, dottore», disse l’infermiera e se ne andò con aria irritata.
Ellis sospirò. Si rimise gli occhiali e guardò accigliato la ragazza.
«Suppongo che a quest’ora lo sappiano tutti in questo dannato ospedale».
«E’ un segreto troppo grosso perché si possa mantenerlo», disse Morris.
Adesso le sirene erano vicinissime. Si vide dalla finestra un’ambulanza che entrava a marcia indietro nel parcheggio. Due inservienti aprirono la porta posteriore e tirarono fuori la barella, su cui giaceva una vecchia che ansimava emettendo umidi gorgoglii.
Edema polmonare acuto, pensò Morris mentre la portavano in una delle sale di cura.
«Speriamo che sia in buone condizioni», disse Ellis.
«Chi?».
«Benson».
«Perché non dovrebbe esserlo?».
«Potrebbero averlo maltrattato un po’». Ellis guardava cupo dalla finestra. E’ proprio di cattivo umore, pensò Morris. E sapeva che questo era un segno di eccitazione: aveva lavorato troppe volte con lui per non riconoscere i sintomi. Irascibilità nervosa nel periodo d’attesa; calma totale, al limite dell’indolenza, all’inizio dell’operazione. «Dove diavolo sarà?», disse Ellis, guardando di nuovo l’orologio.
Per cambiare argomento, Morris disse: «E’ tutto pronto per le tre e mezzo?». Alle tre e mezzo di quel pomeriggio Benson sarebbe stato presentato al personale dell’ospedale in una riunione speciale del reparto neurochirurgico.
«Per quel che ne so io», disse Ellis, «la presentazione la farà la Ross. Spero solo che Benson sia in buone condizioni».
All’altoparlante una voce morbida disse: «Dottor Ellis, dottor John Ellis, due-due-tre-quattro. Dottor Ellis, due-due-tre-quattro».
«Merda». Ellis si alzò per rispondere alla chiamata.
Morris sapeva che due-due-tre-quattro era il numero interno dei laboratori animali. La chiamata significava probabilmente che c’era qualche guaio con le scimmie. Da un mese, per tenersi pronto e per preparare i suoi assistenti, Ellis operava tre scimmie alla settimana.
Lo vide attraversare la stanza e rispondere a un apparecchio a muro. Ellis zoppicava leggermente per un incidente avuto da bambino che gli aveva leso il nervo peroneo laterale della gamba destra.
Morris si era sempre chiesto se quell’incidente avesse influito sulla decisione di Ellis di diventare un neurochirurgo. Certo si comportava come un uomo deciso a rimediare ai difetti e a rimettere a posto le cose. Ai suoi pazienti diceva sempre: «Noi possiamo rimetterla a posto».