Lista d’attesa è scritto da Arturo Arango nel 1995, è composto di tre racconti: “Lista d’attesa”, “L’Avana elegante” e “Palla, bandiera e gagliardetto”. Un libro che unisce il grottesco, denuncia e comicità su uno sfondo realistico-politico.
“Saranno state le tre e trentacinque del pomeriggio quando quello della maglietta nera entrò nella grande sala d’attesa, sempre uguale a come se la ricordava: la stessa scala a spirale con il corrimano di bronzo ormai del tutto consumato, lo stesso odore di vestiti umidi e di fuliggine, lo stesso miscuglio di voci e motori lontani.”
Il primo racconto che dà il titolo alla raccolta è appunto “Lista d’attesa“, da cui è stato tratto anche il film omonimo.
Il racconto è ambientato a Cuba, nei primi anni ottanta. In una sperduta stazione di autobus di una piccola cittadina dell’Avana viene a crearsi il caos, poichè ci sono troppe persone per pochissimi biglietti a disposizione. Nel momento in cui l’unico autobus in partenza si rompe, alcuni, ormai rassegnati, decidono di andarsene e proseguire il viaggio in altra maniera, altri invece, convinti che prima o poi il pullman riesca a partire, decidono di accamparsi nel cortile della stazione. Così iniza un’attesa di ore, giorni, mesi per ottenere un posto nella corriera per Manzanillo. Tutte le persone rimaste finiscono per legare tra loro, dando vita ad una vera e propria comunità, in un clima che diventa in poco tempo familiare, gioioso ed amichevole. Con il passare dei giorni, tutti sembrano aver dimenticato il motivo della loro attesa e nessuno nella stazione se ne vuole andare via dalla quella che è ormai diventata la loro casa. Ma una volta riparato l’autobus ed il contemporaneo arrivo di altri mezzi, che cosa succederà?
“C’era molta gente nella sala, forse più di quella che gli capitava di trovare vent’anni prima, ma non tanta come aveva temuto, e calcolò che se erano meno di trenta in coda probalbilmente sarebbero riusciti a partire nelle ventiquattr’ore successive”
Ho amato il film tratto da questo racconto e quando l’ho trovato in una libreria l’ho acquistato ad occhi chiusi, ma purtroppo è stata una delusione. Questo è uno dei pochi casi in cui il film è meglio del libro. La scrittura è asciutta e confusionaria, non lascia proprio nulla. L’unico pregio è l’idea.
Il secondo racconto è “L’Avana elegante“, narra l’ultimo giorno di vita di Juliàn del Casal, famoso poeta cubano della fine del secolo scorso, che, per consegnare una cronaca a una prestigiosa rivista, percorre le vie dell’Avana di oggi e, in un continuo alternarsi di pani temporali diversi, incontra personaggi di allora e scrittori contemporanei.
Questo racconto mi ha lasciato qualcosa in più rispetto al primo, anche se la scrittura si conferma ostica.
“L’anima del paese profumerà di caffellatte? Lo stesso vapore che si alza tutte le mattine in tutte le case, simili rituali dall’una all’altra: versare il latte, macchiarlo a piacere, zuccherarlo, inzuppare la punta del pane che si disfa a poco a poco, integrandosi all’alimento sacro. Caffellatte e pane e burro nelle caffetterie davanti cui passava quando suo padre lo accompagnava a scuola, caffellatte nei termos come merenda per la ricreazione dei più piccoli, caffellatte di notte, per placare la fame prima di andare a dormire. Povertà, umiltà, rassegnazione, disgusto.”
“Al termine dell’Avenida, il mare propagava il suo sfacciato azzurro. E poi, l’impudicizia del mare. L’avana vecchia si apre, si offre, si spoglia di fronte all’azzurro. Una città dominata dal mare e ancora nessuno ha mai capito questo colore, la sua intensità di gemma, la sue velleità. Amo il mare: vasto e piatto, uguale e freddo, come gli occhi della Marchesa. Un’isola, un piccolo punto impegnato a resistere all’infinità azzurra che lo circonda, In questo la tragicità del nostro destino.”
“Che dolce espressione, com’era perfetta nella sua bellezza. Gli occhi verdi risplendevano e le labbra si schiusero cercando il sorriso. Per la prima volta nella vita sentì che poteva sopportare senza paura la felicità, guardarsi a viso scoperto. Gli occhi verdi si rimpicciolirono, i denti bianchi brillavano nello specchio, il viso si trasformava nella smorfia di una risata. Bellezza divina.”
Il terzo racconto, “Palla, bandiera e gagliardetto“, è ambientato in un’Avana trasformata in città fantasma, e l’anziana Estela, decide di non seguire la famiglia, che con gli altri abitanti della città, si trasferisce in un paese all’interno. Nel trascorrere monotono dei giorni, scanditi dalle necessità materiali della sopravvivenza, il ricordo della sua infanzia a Manzanillo durante la guerra diventa così vivo da sovrapporsi alla realtà.
“A poco a poco erano sfumatinel ricordo i rumori delle ultime auto che avevano attraversato la città, l’impertineza dei campanelli che annunciavano i carretti, e perfino le voci che, una volta terminata l’avacuazione del quartiere, le arrivavano distorte per la nasalità degli altoparlanti. E ora il tintinnio del cucchiaio le aveva data una consapevolezza diversa del suo silenzio, della solitudune del suo silenzio.”
Un racconto surreale e malinconico, che finisce per confermale uno stile che non mi ha per niente catturata.
Come avevo già accenato dal libro è stato tratto un film che ho amato, nel 2000 è stato il vincitore del premio per la sceneggiatura all’Havana Film Festival. E’ stato diretto da Juan Carlos Tabío, con Vladimir Cruz e Jorge Perugorría.