L’amore mi perseguita è un romazo di Federica Bosco, pubblicato nel 2008, il terzo libro della trilogia con protagonista Monica, il primo episodio Mi piaci da morire e il secondo L’amore non fa per me.
“Perché sai che la vita cambia continuamente, un giorno fa schifo e il giorno dopo è bellissima,e l’unica cosa sicura è che un giorno finisce, quindi perché anticipare gli eventi”
Monica torna a New York per la seconda volta, per ricominciare tutto da capo. Reduce da una convivenza tragicomica con quello che credeva essere l’uomo della sua vita e dopo essersi fatta spezzare ancora il cuore dall’altro uomo della sua vita, certa di non poter statisticamente incappare in soggetti più instabili di così, decide di puntare le ultime energie sulla carriera e accetta un incarico temporaneo come cronista per “Vanity Fair”. Più scettica e disillusa che mai nei confronti dell’altro sesso, Monica non immagina quali altri scherzi il destino abbia in serbo per lei. Determinata a fare tutto da sola, anche se il suo passato torna a bussare puntuale come sempre, si troverà ad affrontare le situazioni più catastrofiche con la consueta dose di autoironia e leggerezza finché qualcuno arriverà a sconvolgere completamente i suoi piani. Riuscirà, dopo tante delusioni, a ritrovare la fiducia nel grande amore? E in fondo, esiste davvero il grande amore o è solo una trovata pubblicitaria?
“Non so perchè noi donne ogni volta che prendiamo possesso di un posto dobbiamo immediatamente rivoluzionarlo, dev’essere qualche retaggio paleolitico che ha a che fare con la disposizione dei mobili nella caverna”
Ho letto tutti e tre i libri della trilogia, il primo elettrizzante e divertente, il secondo avrebbe potuto anche trasformarsi in un giallo e il terzo ironico, ma rasenta quasi il fantasy, molto inverosimile.
Nel complesso piacevole per qualche ora di spensieratezza, non è certo il migliore libro di questa autrice.
Cadiamo, mamma? Sembra che cadiamo, vero? Guarda come sono piccole le case laggiù… E guarda le ali come si piegano! Che sta facendo quella signora, mamma? Dai mi rispondi?
Eh?» «Sta pregando, tesoro, alcune persone sono molto nervose in aereo».
«Ma perché, eh? Perché è nervosa la signora, mamma, eh?
Perché ha paura che cadiamo? Tu non sei nervosa, vero mamma?» «No tesoro, la mamma non è affatto nervosa, anzi ora dorme un pochino».
L’insopportabile bambina che mi urla nella testa (puntandomi i piedi nelle reni) sta parlando di me, ma quello che è infinitamente peggio è che sua madre si è messa la mascherina sugli occhi ed è già sprofondata in un sonno beato, invece di minacciarla di lanciarla giù dallo scarico del cesso.
Quello sì che sarebbe divertente.
Deve essere una di quelle madri che bloccano le casse al supermercato, guidano a due all’ora e lasciano urlare le creature al ristorante perché «si sa come sono i bambini no?».
No, non lo so come sono e non lo voglio sapere.
Sto diventando acida come una vecchia zitella, perché è questo che sono, non certo una «single realizzata» che frequenta «bar trendy» e «gente interessante», sono una zitella acida di 32 anni che morirà sola, mangiata dai suoi 32 gatti.
Che prospettiva agghiacciante.
Dio come odio gli aerei, Dio come odio gli uomini che ho avuto, anzi come odio gli uomini in generale e Dio come odio la mia vita che negli ultimi mesi è stata il remake di Shining con me nella parte della mazza da baseball.
Dopo quello che è successo cerco di ributtarmi nel lavoro come consigliano sempre negli allegati delle riviste.
Sto bevendo alcolici ininterrottamente da quasi tre ore, l’atterraggio è previsto fra circa quattro e il mio vicino, che sembra Alec Baldwin, mi ha offerto un Vicodine dicendomi che è la panacea per ogni problema fisico e che le star ne fanno incetta.
Ma non era l’antidolorifico di Doctor House?
Qualunque cosa pur di resistere a questa tortura.
Il vero problema è che nonostante tutte queste sostanze psicotrope resto lucida: invece di mettermi a fluttuare in una dimensione parallela dove sorrido a rallentatore, mentre faccio tripli carpiati e batto il cinque alle hostess, rimango immobile con le sopracciglia alzate e le unghie infilate nei braccioli.
Sono fortunata a non essere una rock star, dovessi farlo tutti i giorni, sarei già finita da tempo in una clinica di riabilitazione.
Almeno lì non sarei mai sola, mi tratterebbero tutti bene, mi accarezzerebbero la testa e sarebbero fieri dei miei progressi…
«…Non come adesso che se morissi non importerebbe a nessunooooo!
! !», dico a voce alta affondando la faccia nella giacca di Alec Baldwin.
«Va tutto bene, signorina? Hostess!», fa un cenno con la mano alla hostess che arriva a passo di carica.
«Nessuno mi amaaaa! E finita col mio ragazzo vecchio perché contava i calzini e l’altro mio ragazzo giovane mi ha portata a letto in Costa Azzurra e poi è sparitoooo… tutti si sono rifatti una vita tranne meeee e mi hanno chiamata a “Vanity Fair” per la storia di Paris Hilton e non ci voglio andare… voglio morireee…».
E ricomincio a piangere senza ritegno.
Sono in uno stato pietoso, l’alcool mi fa sempre questo effetto “suonala ancora Sam!”.
«Su, su cara, si calmi, mi creda, anche se non ho capito bene la successione degli eventi, la mia vita è sicuramente peggio della sua, non per niente faccio la hostess, almeno ho la misera soddisfazione di essere io quella che se ne va la mattina dopo… le porto un bel caffè forte».
Alec mi porge un fazzoletto di carta: «Un altro Vicodine?».
Ed ecco New York e le sue mille luci: un enorme flipper dove tu sei la pallina che rimbalza fra i grattacieli e se non sei abbastanza veloce e abile a rimanere in alto, vieni inesorabilmente inghiottita dall’inferno dei bassifondi.
Non mi stupisco se questa volta non ho il minimo entusiasmo per il fatto di essere nella città più esaltante del mondo, non c’è posto dove sarei felice perché sono profondamente infelice.
Ho trovato un appartamento tramite Craigslist, un sito internet dove la gente affitta casa privatamente e almeno i monolocali costano un po’ meno dei consueti 6000 dollari al mese.
Me la sono cavata con 2100 dollari da lasciare al portiere.
Spero di non finire bastonata in un vicolo, altrimenti dovrei rispondere a tutta una serie di domande logiche di qualche agente di polizia di 17 anni, tipo: «Lei conosceva il padrone di casa? Aveva un suo recapito? Ha preso delle informazioni?
Non andava mica in giro con del contante vero? Ma lei li legge i giornali?».
Farei prima a dire che non avevo il coraggio di suicidarmi.
L’appartamento è nel West Village, almeno se devo piangere meglio farlo con classe.
Il tassista mi lascia davanti a una di quelle casette a schiera di mattoni rossi, separate dalle grate di ferro nero, con le scale esterne e il portone con il pomello in ottone.
L’aria profuma di oceano, il vento fa muovere dolcemente gli alberi e le strade sono piene di gente che beve e si diverte.
E io sono sola…
Ma sono anche a New York, cazzo!
3 commenti
Galatea, ma sarà da leggere allora? Forse si per un momento di svago. Ci vogliono ogni tanto anche libri leggeri che liberano la mente dalla pesantezza dei pensieri, purché siano scritti bene.
Non è bruttissimo, ma forse è più piacevole per chi ha già letto gli altri e vuole colmare la curiosità di sapere come va a finire, ma non lo consiglio a chi vuole leggerlo indipendentemente dagli altri, per qualche ora di leggerezza credo che ci sia di meglio in giro. questo è solo il mio umile parere, poi entra anche il fattore gusto personale.
La tua recensione mi ha convinto e credo che al più presto mi dedicherò alla lettura di questa trilogia di una scrittrice che non conoscevo.
Grazie,
aldo.