Il nome della rosa di Umberto Eco è il romanzo d’esordio pubblicato nel 1980 e vinse il Premio Strega nel 1981. E’ un romanzo che non appartiene ad un singolo genere, potrebbe essere catalogato come un giallo storico, ambientato nel Medioevo, avvolto da una atmosfera gotica, al centro delle controversie religiose e degli scontri tra Papato e Impero, inserendo oltre a personaggi inventati, anche figure storiche e fatti realmente esistiti, mischiando sapientemente filosofia, simbologia e riferimenti letterari.
“Il 16 agosto 1968 mi fu messo tra le mani un libro dovuto alla penna di tale abate Vallet, Le manuscript de Dom Adson de Melk, traduit en français d’après l’édition de Dom J. Mabillon (Aux Presses de l’Abbaye de la Source, Paris, 1842). Il libro, corredato di indicazioni storiche invero assai povere, asseriva di riprodurre fedelmente un manoscritto del XIV secolo, a sua volta trovato nel monastero di Melk dal grande erudito secentesco, a cui tanto si deve per la storia dell’ordine benedettino. …
In un clima mentale di grande eccitazione leggevo, affascinato, la terribile storia di Adso da Melk, e tanto me ne lasciai assorbire che quasi di getto ne stesi una traduzione, su alcuni grandi quaderni della Papeterie Joseph Gibert, su cui è tanto piacevole scrivere se la penna è morbida.”
Trama del “Il nome della rosa”
Ultima settimana del novembre 1327. Il novizio Adso da Melk accompagna in un’abbazia dell’alta Italia frate Guglielmo da Baskerville, incaricato di una sottile e imprecisa missione diplomatica. Ex inquisitore, amico di Guglielmo di Occam e di Marsilio da Padova, frate Guglielmo si trova a dover dipanare una serie di misteriosi delitti (sette in sette giorni, perpetrati nel chiuso della cinta abbaziale) che insanguinano una biblioteca labirintica e inaccessibile.
Per risolvere il caso, Guglielmo dovrà decifrare indizi di ogni genere, dal comportamento dei santi a quello degli eretici, dalle scritture negromantiche al linguaggio delle erbe, da manoscritti in lingue ignote alle mosse diplomatiche degli uomini di potere. La soluzione arriverà, forse troppo tardi, in termini di giorni, forse troppo presto, in termini di secoli.
“Solo il bibliotecario, oltre a sapere, ha il diritto di muoversi nel labirinto dei libri, egli solo sa dove trovarli e dove riporli, egli solo è responsabile della loro conservazione. Gli altri monaci lavorano nello scriptorium e possono conoscere l’elenco dei volumi che la biblioteca rinserra. Ma un elenco di titoli spesso dice assai poco, solo il bibliotecario sa, dalla collocazione del volume, dal grado della sua inaccessibilità, quale tipo di segreti, di verità o di menzogne il volume custodisca. Solo egli decide come, quando, e se fornirlo al monaco che ne fa richiesta, talora dopo essersi consultato con me. Perché non tutte le verità sono per tutte le orecchie, non tutte le menzogne possono essere riconosciute come tali da un animo pio, e i monaci, infine, stanno nello scriptorium per porre capo a un’opera precisa, per la quale debbono leggere certi e non altri volumi, e non per seguire ogni dissennata curiosità che li colga, vuoi per debolezza della mente, vuoi per superbia, vuoi per suggestione diabolica.”
Il titolo del romanzo richiama la complessa simbologia della rosa, presente in moltissime opere della letteratura medievale. Lo stesso Eco spiega che fu tratto dal De contemptu mundi di Bernardo Morliancense, autore del XII secolo e sostituendo “Roma” con “rosa”, lo scrittore pone a fine libro una postilla “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”, che tradotta in italiano significa pressappoco “la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi”.
Lo stesso autore ha spiegato che alla fine le cose non esistono più e rimangono solo le parole e dell’esistenza della rosa non resta che il nome universale. Una riflessione sulla transitorietà delle cose, di cui, alla fine, rimane solo l’aspetto verbale.
“Il bene di un libro sta nell’essere letto. Un libro è fatto di segni che parlano di altri segni, i quali a loro volta parlano delle cose. Senza un occhio che lo legga, un libro reca segni che non producono concetti, e quindi è muto. Questa biblioteca è nata forse per salvare i libri che contiene, ma ora vive per seppellirli. Per questo è divenuta fomite di empietà.”
Recensione
La trama è avvincente e ricca di suspense, sono stata immersa nell’atmosfera cupa e claustrofobica del monastero, ho apprezzato la complessità dei personaggi, ciò che rende il libro ancora più straordinario è la sua profondità filosofica, esplora temi come la conoscenza, la fede, la filosofia e la lotta tra il sapere e il potere. Attraverso i dialoghi tra i personaggi e le riflessioni del protagonista, il romanzo offre una visione approfondita delle tensioni intellettuali e religiose dell’epoca.
Un romanzo senza tempo che, nella sua complessità, mi ha travolto. All’inizio il linguaggio ricercato può destabilizzare, ma andando avanti nella lettura la scrittura si alleggerisce divenendo più accessibile e piacevole fino ad un coinvolgimento totale. Un romanzo pieno che resta con te, l’ho letto vent’anni fa e gli ho ridato una lettura veloce ultimamente prima di vedere la nuova serie tv tratta dal libro, riprovando le stesse emozioni di allora.
Ho amato la contrapposizione tra Medioevo e tempi moderni, tra la rigidità dei dogmi e la sete di conoscenza, tra le superstizioni ed uno spirito critico, tra l’oscurantismo e la ricerca della verità. Un libro che merita di essere letto e che si presta a molteplici interpretazioni e riletture, offrendo sempre nuovi strati di significato. Lo consiglio a chiunque ami un romanzo che unisca il mistero a profonde riflessioni sulla natura umana e sulla società.
Nel 1986 dal libro è stato tratto un film diretto da Jean-Jacques Annaud, con Sean Connery e Christian Slater.
Nel 2019 è stata tratta la Serie TV, ideata da Giacomo Battiato, Andrea Porporati, Nigel Williams, con John Turturro e Damian Hardung.
Incipit del “Il nome della rosa”
Ecco com’era la situazione quando io – già novizio benedettino nel monastero di Melk – fui sottratto alla tranquillità del chiostro da mio padre, che si batteva al seguito di Ludovico, non ultimo tra i suoi baroni, e che ritenette saggio portarmi con sé perché conoscessi le meraviglie d’Italia e fossi presente quando l’imperatore fosse stato incoronato in Roma. Ma l’assedio di Pisa lo assorbì nelle cure militari. Io ne trassi vantaggio aggirandomi, un poco per ozio e un poco per desiderio di apprendere, per le città della Toscana, ma questa vita libera e senza regola non si addiceva, pensarono i miei genitori, a un adolescente votato alla vita contemplativa. E su suggerimento di Marsilio, che aveva preso a benvolermi, decisero di pormi accanto a un dotto francescano, frate Guglielmo da Baskerville, il quale stava per iniziare una missione che lo avrebbe portato a toccare città famose e abbazie antichissime. Divenni così suo scrivano e discepolo al tempo stesso, né ebbi a pentirmene, perché fui con lui testimone di vicende degne di essere consegnate, come ora sto facendo, alla memoria di coloro che verranno.
Io non sapevo allora cosa frate Guglielmo cercasse, e a dire il vero non lo so ancor oggi, e presumo non lo sapesse neppure lui, mosso com’era dall’unico desiderio della verità, e dal sospetto – che sempre gli vidi nutrire – che la verità non fosse quella che gli appariva in quel momento. E forse in quegli anni egli era distratto dai suoi studi prediletti da incombenze del secolo. La missione di cui Guglielmo era incaricato mi rimase ignota lungo tutto il viaggio, ovvero egli non me ne parlò. Fu piuttosto ascoltando brani di conversazioni, che egli ebbe con gli abati dei monasteri in cui ci arrestammo via via, che mi feci qualche idea sulla natura del suo compito. Ma non lo capii appieno sino a che non pervenimmo alla nostra meta.
Eravamo diretti verso settentrione, ma il nostro viaggio non procedette in linea retta e ci arrestammo in varie abbazie. Accadde così che piegammo verso occidente (mentre avremmo dovuto andare a oriente), quasi seguendo la linea montana che da Pisa porta in direzione dei cammini di San Giacomo, soffermandoci in una terra che quanto poi vi accadde mi sconsiglia di identificare meglio, ma i cui signori erano fedeli all’impero e dove gli abati del nostro ordine di comune accordo si opponevano al papa eretico e corrotto. Il viaggio durò due settimane tra varie vicende e in quel tempo ebbi modo di conoscere (non mai abbastanza, come sempre mi convinco) il mio nuovo maestro.