L’anno in cui imparai a leggere è un romanzo scritto da Marco Marsullo, pubblicato da Einaudi, nel 2019. Una storia che ci trascina nel mondo, pieno di stupore, di una famiglia improvvisata. Niente è piú spericolato dell’amore. Soprattutto dell’amore per un bambino.
“Non importa quanta dignità tu abbia, se un bambino ti passa una tazzina vuota, tu devi bere.”
Niccolò ha venticinque anni ed è innamorato perso di Simona. Cosí quando lei, bella e inquieta, parte mollandogli suo figlio Lorenzo, lui decide di prendersene cura, sebbene quel moccioso di quattro anni non lo abbia mai accettato e di notte lo sbattesse puntualmente fuori dal letto. Niccolò non ha mai fatto il padre, e non sa come gestire capricci, routine, amichetti che giocano a fingersi d’improvviso morti e primi batticuori. In piú, a complicare le cose, ci si mette anche il padre naturale. Riccioli scompigliati e chitarra in spalla, è arrivato dall’Argentina per incontrare il piccolo, e si è installato in casa senza alcuna intenzione di andarsene. Innamorati della stessa donna, lui e Niccolò si detestano, e il bambino non riconosce un ruolo a nessuno dei due. Eppure, giorno dopo giorno, tra litigi e partite a pallone, pigiama party e impreviste abitudini, questi tre «ragazzi» abbandonati imparano ad appoggiarsi l’uno all’altro, per sorreggersi insieme contro il mondo.
“Le famiglie sono una trappola a cui nessuno di noi può rinunciare.
Le famiglie si distruggono, spaccano le vite a metà, si ricostituiscono. Si autogenerano senza che ce ne accorgiamo, sono un sistema istintivo di sopravvivenza.
Tutti ne abbiamo bisogno e tutti ne siamo soffocati.
E per ciò che riguardava noi tre, a vederci da fuori, uno per uno, in quelle due settimane, era facile notare quali fossero le nostre ferite, in che modo ciascuno di noi fosse difettoso.
Non importava l’età, il passato che avevamo conosciuto, la lingua che parlavamo. Importava solo l’amore che avevamo faticato a trascinarci dietro per conto nostro. L’amore sbriciolato che, con grande sforzo, avevamo messo insieme, un puzzle dai pezzi spaiati. Incastrati a forza, con gli angoli rotti, la figura finale non corrispondente all’immagine della confezione.”
La storia è narrata in prima persona da Niccolò, il protagonista, si svolge nell’arco temporale di un anno, diviso per stagioni che scandiscono il passare del tempo. La scrittura è perfettamente semplice e diretta, capace di regalare una lettura scorrevole e leggera, ma anche attenzione ai dettagli, soprattutto a quelli emotivi. Un libro davvero divertente, dove molti si posso riconoscere nella quotidianità delle situazioni, ma anche uscire dalla “comfort zone”, un testo dove si parla di diversità e uguaglianza, di pregiudizi, scoperte e crescita personale, di quanto è difficile essere genitori ed anche figli, insomma un testo che metterei tra i moderni romanzi di formazione.
“Perché i figli non sono solo di chi ci mischia dentro il corredo genetico. I figli sono di chi se ne prende cura, di chi scova un ultimo granello di energia per loro, la sera, dopo una giornata infernale. I figli sono di chi, senza pensarci troppo su e senza una garanzia, si innamora di loro, anche se hanno gli zigomi di un’altra persona.”
Non avevo letto nulla di questo autore, mi hanno molto incuriosita le recensioni positive su questo libro, così ho deciso di tuffarmi in questa avventura letteraria. Mi sono innamorata dello stile di Marsullo, spero che non sia un’eccezione perchè ho deciso che leggerò altri suoi lavori. Come avrete intuito da ciò che ho scritto ne consiglio la lettura, sono sicura che vi arricchirà e che cercherete lo sguardo di Lorenzo nei bambini che incontrerete.
“Camminavo per mano a quel bambino che non era figlio mio. Allora perché faceva cosí male?”
Se me lo avessero chiesto prima, prima che conoscessi Lorenzo, intendo, non avrei mai saputo rispondere alla domanda: «Qual è il piú grande nemico dei bambini?»
Non avrei mai saputo rispondere perché, prima di Lorenzo, non avevo mai conosciuto un bambino.
La forza di gravità.
I bambini sono attratti dai pavimenti, dagli spigoli, da altezze precipitando dalle quali si romperebbero un arto. E ai bambini cade tutto. Qualsiasi oggetto, cibo o bevanda stringano tra le mani sarà irrimediabilmente, magicamente, matematicamente richiamato al suolo.
Ebbi modo di capirlo piú volte, quell’anno. A ogni mal di testa scoppiato dopo dieci ore di pastelli, posate e telecomandi che rovinavano in terra. A ogni corsa contro un mobile appuntito per metterci sopra la mano a conchiglia. A ogni mocio strizzato nel secchio per ripulire il mix di yogurt e biscotti spappolati che macchiava le mattonelle sotto il tavolo della cucina.
E poi, tutte le risposte alle sue domande, continue e martellanti. Risposte che mi erano sempre sembrate superflue, quando le sentivo pronunciare dai genitori tra gli scaffali dei supermercati, vicino allo scivolo di un giardinetto o alla fermata dell’autobus. Ma che, avrei imparato con grande stupore, erano necessarie. Tutte, fino all’ultima.
Perché noi adulti non ci domandiamo la normalità e non ci sorprendiamo per la banalità.
Ma al mondo, di banale, non c’è proprio niente.
Solo che questo, prima di incontrare Lorenzo, io non lo sapevo.
Andiamo con ordine.
Mi chiamo Niccolò Valli e all’epoca avevo venticinque anni. L’anno precedente il mio incontro con Lorenzo e sua madre era uscito il mio primo romanzo, L’ultima curva prima del paradiso. Un successo di critica e pubblico che aveva venduto decine di migliaia di copie; l’editore era pieno di grandiose aspettative sul mio futuro di narratore. Una carriera cominciata con il botto, le televisioni e le radio che facevano a cazzotti per intervistarmi. Tutto lasciava pensare alla nascita di uno scrittore fenomenale, con sessant’anni di grandi successi sulla punta delle dita.
Il fatto, però, era che non avevo piú idee.
Buffo non avere idee dopo aver scritto un unico libro, ma in quel momento girava cosí. Mi pareva impossibile inventare qualcos’altro di buono. Forse, pensavo, ero stato uno scrittore dallo scatto breve, un centometrista letterario che aveva avuto un colpo di fortuna e nulla piú. L’ipotesi mi tormentava, e pure tanto, non mi faceva dormire la notte, perché se non avessi scritto che avrei potuto fare nella vita? Ero una frana in tutto. Non avevo una laurea e non avevo mai lavorato. Non possedevo nemmeno un curriculum e anche volendo: cosa ci avrei messo dentro?