Fu sera e fu mattina è un romanzo storico di Ken Follett, pubblicato nel 2020, da Mondadori. Continua la saga di Kingsbridge, questa volta Follett ci regala il prequel del primo romanzo “I Pilastri della Terra” trasportando il lettore nelle vite di quattro personaggi che si intersecano negli anni più bui e turbolenti del Medioevo, in un succedersi di colpi di scena, avventura, coraggio, amore, odio e ambizione.
“Con il declino dell’impero romano, la Britannia regredì. Mentre le ville romane cadevano in rovina, si costruivano abitazioni di legno composte da un unico locale privo di camino. La tecnica della ceramica romana – importante per la conservazione del cibo – andò quasi del tutto perduta. L’alfabetizzazione calò.
Questo periodo viene definito da taluni come “i secoli bui”, e per cinquecento anni il progresso fu terribilmente lento.
Poi, finalmente, le cose cominciarono a cambiare…”
17 giugno 997. Non è ancora l’alba quando a Combe, sulla costa sudoccidentale dell’Inghilterra, il giovane costruttore di barche Edgar si prepara con trepidazione a fuggire di nascosto con la donna che ama. Ma i suoi piani vengono spazzati via in un attimo da una feroce incursione dei vichinghi, che mettono a ferro e fuoco la sua cittadina, distruggendo ogni cosa e uccidendo chiunque capiti loro a tiro. Edgar sarà costretto a partire con la sua famiglia per ricominciare tutto da capo nel piccolo e desolato villaggio di Dreng’s Ferry. Dall’altra parte della Manica, in terra normanna, la giovane contessa Ragna, indipendente e fiera, si innamora perdutamente del nobile inglese Wilwulf e decide impulsivamente di sposarlo e seguirlo nella sua terra, contro il parere di suo padre, il conte Hubert di Cherbourg. Si accorgerà presto che lo stile di vita al quale era abituata in Normandia è ben diverso da quello degli inglesi, la cui società arretrata vive sotto continue minacce di violenza e dove Ragna si ritroverà al centro di una brutale lotta per il potere. In questo contesto, il sogno di Aldred, un monaco colto e idealista, di trasformare la sua umile abbazia in un centro di erudizione e insegnamento entra in aperto conflitto con le mire di Wynstan, un vescovo abile e spietato pronto a tutto pur di aumentare le sue ricchezze e il suo potere.
“Si voltò per un ultimo sguardo. Il suo ponte dominava il paesaggio. Aveva cambiato drasticamente il piccolo villaggio. La maggior parte delle persone non vi si riferiva più con il suo vecchio nome di Dreng’s Ferry.
Adesso lo chiamavano King’s Bridge.”
Le recensioni non sono molto confortanti, anche a chi è piaciuto riconosce che non è il migliore romanzo dell’autore e che non regge il confronto con i precedenti. Poi ci sono quelli profondamente delusi e sono quelli innamorati di Follett. Molti lettori rimproverano delle inesattezze storiche, proprio perché i riferimenti storici sono un punto forte della saga di Kingsbridge. Forse le aspettative sono veramente molto alte per questo romanzo. Come sempre non ci resta che leggerlo per dare la nostra personale opinione. Buona Lettura!
“La navata della cattedrale di Canterbury era fredda e buia. Era un pomeriggio di novembre e la luce tremula delle candele gettava ombre simili a spiriti inquieti. Nel presbiterio, la parte più sacra della chiesa, l’arcivescovo Elfric si stava lentamente spegnendo. Le sue mani esangui stringevano una croce d’argento posata sul cuore. Gli occhi erano aperti ma immobili, il respiro regolare ma affannoso. Sembrava gradire il canto dei monaci che lo circondavano perché, ogni volta che si interrompeva, lui aggrottava le sopracciglia. Il vescovo Wynstan rimase a lungo inginocchiato in preghiera ai piedi dell’arcivescovo.”
Fanno parte della saga di Kingsbridge:
1989 – I pilastri della Terra
2007 – Mondo senza fine
2017 – La colonna di fuoco
Prima parte
LE NOZZE
9971
Giovedì, 17 giugno 997
Edgar si rese conto che era difficile restare svegli tutta la notte, persino in quella più importante della tua vita.
Aveva steso il mantello sulle canne che coprivano il pavimento e vi si era sdraiato sopra, con indosso la tunica di lana marrone lunga fino alle ginocchia che era tutto ciò che portava d’estate, giorno e notte. In inverno si avvolgeva nel mantello e si metteva accanto al fuoco. Ora, però, la temperatura era mite: mancava una settimana al giorno di mezza estate, in cui si ricordava san Giovanni Battista.
Edgar conosceva tutte le date. La maggior parte delle persone era costretta a chiederle ai preti, che avevano i calendari. Una volta Erman, suo fratello maggiore, gli aveva domandato “Come fai a sapere quando è Pasqua?” e lui aveva risposto “Perché è la prima domenica dopo la prima luna piena dopo il ventunesimo giorno di marzo, ovvio”. Era stato un errore aggiungere quell’“ovvio”, perché Erman non aveva gradito il sarcasmo e gli aveva tirato un pugno nello stomaco. Era successo anni prima, quando Edgar era piccolo. Adesso era cresciuto. Avrebbe compiuto diciotto anni tre giorni dopo San Giovanni. I fratelli non si azzardavano più a prenderlo a pugni.
Scrollò la testa. Quei pensieri errabondi gli conciliavano il sonno. Cercò di assumere una posizione scomoda, sdraiandosi sulla mano stretta a pugno per tenersi sveglio.
Si chiese quanto tempo avrebbe dovuto aspettare ancora.
Voltò la testa e si guardò attorno alla luce del fuoco. La sua casa era simile a ogni altra nella città di Combe: struttura di assi di quercia, tetto di paglia e un pavimento di terra solo parzialmente coperto di canne prese dagli argini del fiume che scorreva lì vicino. Non c’erano finestre. Al centro dell’unico ambiente il focolare era racchiuso da un quadrato di pietre, e sopra a questo c’era un treppiede di ferro al quale si poteva appendere un paiolo. I piedi disegnavano sul soffitto ombre simili a zampe di ragno. Tutto intorno alle pareti dei pioli di legno reggevano indumenti, utensili da cucina e attrezzi per la costruzione delle barche.
Edgar non avrebbe saputo dire a che punto fosse la notte, perché doveva essersi appisolato, e forse più di una volta. Prima aveva sentito i rumori tipici della città che si preparava alla nottata: due ubriachi che intonavano una canzonaccia, le aspre parole d’accusa di una lite coniugale nella casa vicina, una porta sbattuta, un cane che abbaiava e da qualche parte, non lontano, il singhiozzare di una donna. Ora, però, si udiva soltanto il dolce mormorio delle onde sulla spiaggia riparata. Guardò verso la porta, in cerca delle lame di luce rivelatrici intorno ai bordi, ma vide solo oscurità. Questo voleva dire o che la luna era tramontata, segno che era ormai notte fonda, o che il cielo era nuvoloso, cosa che non gli avrebbe fornito alcuna indicazione.
Il resto della sua famiglia era sdraiato nella stanza, lungo le pareti, dove c’era meno fumo. Pa’ e Ma’ riposavano schiena contro schiena. Certe volte si svegliavano nel cuore della notte e si amavano, bisbigliando e muovendosi insieme per poi ricadere sulla schiena, ansanti; ora, però, dormivano della grossa, e Pa’ russava. Erman, che aveva vent’anni ed era il fratello maggiore, era sdraiato vicino a Edgar, mentre Eadbald, il mezzano, stava nell’angolo. Edgar udiva il loro respiro regolare e tranquillo.
Finalmente la campana della chiesa si fece sentire.
All’altro capo della città c’era un monastero. I monaci avevano un modo per misurare il tempo della notte: fabbricavano grandi ceri graduati che, bruciando, indicavano loro che ora fosse. Un’ora prima dell’alba suonavano la campana e poi si alzavano per cantare il Mattutino.
Edgar rimase sdraiato ancora un po’. Quel suono poteva aver disturbato Ma’, che si ridestava con facilità. Lui le diede il tempo di ripiombare in un sonno profondo. Poi, finalmente, si alzò.
In silenzio raccolse il mantello, le scarpe e la cintura a cui era attaccato il fodero con il pugnale. A piedi nudi attraversò la stanza, evitando le suppellettili, un tavolo, due sgabelli e una panca. La porta si aprì senza far rumore: il giorno prima Edgar aveva ingrassato i cardini di legno con una dose generosa di sego di pecora.
Se uno dei suoi familiari si fosse svegliato in quel momento e gli avesse rivolto la parola, lui avrebbe detto che stava andando fuori a orinare, sperando che le scarpe che stringeva in mano non venissero notate.
Eadbald grugnì. Edgar si immobilizzò. Si era svegliato oppure gli era semplicemente sfuggito un verso nel sonno? Edgar non avrebbe saputo dirlo. Ma Eadbald era il più accomodante tra loro tre, sempre attento a evitare conflitti, proprio come Pa’. Non gli avrebbe causato problemi.
Edgar uscì e richiuse piano la porta dietro di sé.
La luna era tramontata, ma le stelle nel cielo sereno illuminavano la spiaggia. Tra la casa e la linea dell’alta marea c’era un cantiere. Pa’ era un costruttore di barche, e i tre figli lavoravano con lui. Era un buon artigiano, però un pessimo commerciante, per cui era Ma’ a prendere tutte le decisioni relative al denaro, specie quando si trattava dei difficili calcoli per determinare quanto chiedere per un manufatto complicato come una barca o una nave. Quando un cliente provava a tirare sul prezzo Pa’ era sempre pronto a cedere, e invece Ma’ lo costringeva a tenere duro.
Mentre si metteva scarpe e cintura, Edgar lanciò un’occhiata al cantiere. C’era soltanto una barca in costruzione, una piccola imbarcazione a remi per risalire il fiume. Accanto a quella c’era una preziosa scorta di legname, una grande catasta di tronchi spaccati a metà e poi in quarti, pronti per essere trasformati nelle varie parti che compongono un’imbarcazione. Una volta al mese, più o meno, la famiglia al completo andava nella foresta per abbattere un albero di quercia maturo. Edgar e Pa’ cominciavano con il praticare una precisa incisione a cuneo nel tronco, alternandosi nei colpi con le accette dal manico lungo. Poi si riposavano mentre Erman e Eadbald davano loro il cambio. Quando l’albero cadeva, lo ripulivano dai rami e lo facevano scendere con l’aiuto della corrente lungo il fiume fino a Combe. Dovevano pagare, ovviamente: la foresta apparteneva a Wigelm, il signore a cui la maggior parte degli abitanti di Combe versava l’affitto, e che pretendeva dodici penny d’argento per ogni albero abbattuto.
Oltre alla catasta di legname, c’erano anche un barile di catrame, un rotolo di corda e una pietra per affilare gli attrezzi. A tutto questo faceva la guardia un cane legato alla catena, un mastino nero con il muso grigio di nome Grendel, troppo vecchio per nuocere realmente a un ladro ma ancora in grado di abbaiare per dare l’allarme. Grendel era tranquillo e osservava Edgar con espressione curiosa, il muso posato sulle zampe anteriori. Edgar si inginocchiò e gli fece una carezza sulla testa. «Addio, vecchio mio» mormorò, e Grendel agitò la coda senza alzarsi.
Nel cantiere c’era pure un’imbarcazione finita, che Edgar considerava sua. L’aveva realizzata lui, secondo un suo progetto originale basato su una nave vichinga. In realtà Edgar non aveva mai visto un vichingo – non c’erano state razzie a Combe nel corso della sua vita –, ma due anni prima sulla spiaggia si era arenato un relitto, vuoto e annerito dal fuoco, la polena a foggia di drago mezza fracassata, presumibilmente in seguito a una battaglia. Edgar era rimasto affascinato dalla sua bellezza mutilata: le curve aggraziate, la lunga prua sinuosa, lo scafo slanciato. Quello che lo aveva colpito di più era stata la grande chiglia sporgente che correva per tutta l’estensione della nave e che – aveva capito dopo approfondite riflessioni – le conferiva quella stabilità che permetteva ai vichinghi di attraversare i mari. La barca di Edgar era una versione ridotta, con due remi e una vela piccola e quadrata.
Edgar sapeva di avere un talento. Era già più bravo dei suoi fratelli a costruire imbarcazioni, e presto avrebbe superato persino il padre. Aveva un intuito naturale nell’immaginare come diverse parti potessero essere unite per creare una struttura salda. Anni prima aveva udito per caso Pa’ dire a Ma’: “Erman è lento a imparare, Eadbald è più veloce, ma sembra che Edgar capisca ancora prima che le parole mi escano dalla bocca”. Era la verità. C’erano uomini in grado di prendere in mano uno strumento per la prima volta, un flauto o una lira, e dopo qualche momento trarne una melodia. Edgar possedeva lo stesso istinto per le barche, e anche per le case. “Quella barca si inclinerà a dritta” diceva, oppure: “Quel tetto farà passare l’acqua”, e aveva sempre ragione.
Slegò la barca e la spinse giù per la spiaggia. Il rumore dello scafo che strisciava sulla sabbia era attutito dallo sciabordio delle onde che si frangevano a riva.