Lettere contro la guerra è una raccolta di lettere aperte, scritte da Tiziano Terzani, pubblicate sul Corriere della Sera in risposta alla lettera di Oriana Fallaci “La rabbia e l’orgoglio”, pubblicata sullo stesso quotidiano il 29 settembre riguardante il drammatico evento dell’11 settembre 2001.
Il libro venne pubblicato per la prima volta nel 2002 dalla casa editrice Longanesi, il volume è dedicato al nipote Novalis, “perché anche lui un giorno quando sarà grande dovrà decidere tra la pace e la guerra, e la non-violenza è l’unica chance che l’umanità ha”.
“Con queste lettere non cerco di convincere nessuno. Voglio solo far sentire una voce, dire un’altra parte di verità, aprire un dibattito perché tutti prendiamo coscienza, perché non si continui a pretendere che non è successo niente, a far finta di non sapere”
Con queste corrispondenze, da Kabul, Peshawar, Quetta, ma anche da Orsigna, Firenze, Delhi e dal suo rifugio sull’Himalaya, Tiziano Terzani comincia un pellegrinaggio di pace tra Oriente e Occidente. Un pellegrinaggio compiuto da un uomo che, nel corso della sua vita, è stato un cronista coinvolto in prima persona nella realtà che descriveva; un giornalista capace d’individuare per istinto i segni che un determinato avvenimento lascia sul territorio sconfinato della Storia; un narratore con una voce unica, spesso fuori del coro, sempre autentica e piena di comprensione.
Un uomo che, prima dell’11 settembre 2001, ha sempre avuto una profonda consapevolezza dell’abisso culturale, ideologico, sociale aperto (e spesso ignorato) tra l’Occidente in cui è nato e l’Oriente in cui ha vissuto per trent’anni. Un uomo che, dopo l’11 settembre 2001, ha capito di non poter più tacere di fronte alla barbarie, all’intolleranza, all’ipocrisia, al conformismo, all’indifferenza.
Tiziano Terzani assolve un dovere verso il futuro di tutti noi, comincia un pellegrinaggio che tutti noi dovremmo compiere. Perché non basta comprendere «il dramma del mondo musulmano nel suo confronto con la modernità, il ruolo dell’Islam come ideologia anti-globalizzazione, la necessità da parte dell’Occidente di evitare una guerra di religione»; bisogna soprattutto capire, convincersi, credere che l’unica via d’uscita possibile dall’odio, dalla discriminazione, dal dolore è la non-violenza. E con disarmante, provocatoria, audacissima semplicità ci dice:
“Il mondo è cambiato. Dobbiamo cambiare noi. Fermiamoci, riflettiamo, prendiamo coscienza, facciamo ognuno qualcosa. Nessun altro può farlo per noi”.
Durante la lettura di riflessioni ne scaturiscono parecchie. Si riflette sul fatto paradossale che questo tragico evento possa diventare un’opportunità per costruire un mondo di pace e tolleranza, esaminando ciò che è stato, ciò che è, soprattutto dal punto di vista altrui senza il quale non può esserci giudizio, né rabbia né orgoglio. Non c’è schieramento nelle sue parole, ha la capacità di sostenere una posizione neutrale, che dovrebbe appartenere a tutti quelli che si pongono domande sui complessi equilibri che regolano il pensiero occidentale e l’ambiente in cui opera o vorrebbe operare.
“Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo i soli protagonisti e i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni e i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. Il mondo degli altri non viene mai rappresentato”
Ci chiede di rallentare, di fare un passo indietro, di recuperare una dimensione di equilibrio con il pianeta che ci ospita. ci chiede di non essere più indifferenti, di prenderci le nostre responsabilità cominciando dai rapporti tra ogni singolo uomo. Ci propone di fare un viaggio lungo e difficile, un viaggio dentro di noi, augurandoci alla fine “buon viaggio”. E’ un libro che non smette di essere tremendamente attuale.
Guardando le immagini disperate che provengono dall’Afghanistan, dove i talebani hanno preso il controllo del Paese, penso che quell’occasione di cui parla Terzani l’abbiamo persa. Ma credo anche che non è mai troppo tardi per un cambiamento. Questo libro è da leggere e da rileggere.
“Ancor più che fuori, le cause della guerra sono dentro di noi. Sono in passioni come il desiderio, la paura, l’insicurezza, l’ingordigia, l’orgoglio, la vanità. Lentamente bisogna liberarcene. Dobbiamo cambiare atteggiamento. Cominciamo a prendere le decisioni che ci riguardano e che riguardano gli altri sulla base di più moralità e meno interesse. Facciamo più quello che è giusto, invece di quel che ci conviene. Educhiamo i figli ad essere onesti, non furbi.
Riprendiamo certe tradizioni di correttezza, reimpossessiamoci della lingua, in cui la parola «dio» è oggi diventata una sorta di oscenità, e torniamo a dire «fare l’amore» e non «fare sesso». Alla lunga, anche questo fa una grossa differenza.
È il momento di uscire allo scoperto, è il momento d’impegnarsi per i valori in cui si crede. Una civiltà si rafforza con la sua determinazione morale molto più che con nuove armi.
Soprattutto dobbiamo fermarci, prenderci tempo per riflettere, per stare in silenzio. Spesso ci sentiamo angosciati dalla vita che facciamo, come l’uomo che scappa impaurito dalla sua ombra e dal rimbombare dei suoi passi. Più corre, più vede la sua ombra stargli dietro; più corre, più il rumore dei suoi passi si fa forte e lo turba, finché non si ferma e si siede all’ombra di un albero. Facciamo lo stesso.
Visti dal punto di vista del futuro, questi sono ancora i giorni in cui è possibile fare qualcosa. Facciamolo. A volte ognuno per conto suo, a volte tutti assieme. Questa è una buona occasione.
Il cammino è lungo e spesso ancora tutto da inventare. Ma preferiamo quello dell’abbrutimento che ci sta dinanzi? O quello, più breve, della nostra estinzione?
Allora: Buon Viaggio! Sia fuori che dentro.“
Su un blog ho letto che mentre il libro di Oriana Fallaci “La rabbia e l’orgoglio” è stato tradotto in tutte le lingue ed è un un bestseller, questo libro di Terzani è stato censurato in USA e Gran Bretagna, sembrerebbe che nessun editore in quei Paesi voglia pubblicarlo. Non so se questo sia vero, ma se fosse così sarebbe davvero una vergogna occidentale.
Incipit di “Lettere contro la guerra”
10 SETTEMBRE 2001: IL GIORNO MANCATO
CI SONO giorni nella vita in cui non succede niente, giorni che passano senza nulla da ricordare, senza lasciare una traccia, quasi non si fossero vissuti. A pensarci bene, i più sono giorni così, e solo quando il numero di quelli che ci restano si fa chiaramente più limitato, capita di chiedersi come sia stato possibile lasciarne passare, distrattamente, tantissimi. Ma siamo fatti così: solo dopo si apprezza il prima e solo quando qualcosa è nel passato ci si rende meglio conto di come sarebbe averlo nel presente. Ma non c’è più.
Il 10 settembre 2001 per me, e son certo non solo per me, fu un giorno di questo tipo: un giorno di cui non ricordo assolutamente nulla. So che ero ad Orsigna, l’estate era finita, la famiglia s’era di nuovo sbrancata in tutte le direzioni ed io probabilmente preparavo vestiti e carte per tornare in India a svernare.
Pensavo di partire dopo il mio compleanno, ma non contavo i giorni e quel 10 settembre 2001 passò senza che me ne accorgessi, come non fosse nemmeno stato nel calendario. Peccato. Perché per me, per tutti noi – anche per quelli che ancora oggi si rifiutano di crederlo –, quel giorno fu particolarissimo, uno di cui avremmo dovuto, coscientemente, gustare ogni momento. Fu l’ultimo giorno della nostra vita di prima: prima dell’11 settembre, prima delle Torri Gemelle, della nuova barbarie, della limitazione delle nostre libertà, prima della grande intolleranza, della guerra tecnologica, dei massacri di prigionieri e di civili innocenti, prima della grande ipocrisia, del conformismo, dell’indifferenza o, peggio ancora, della rabbia meschina e dell’orgoglio malriposto; l’ultimo giorno prima che la nostra fantasia in volo verso più amore, più fratellanza, più spirito, più gioia venisse dirottata verso più odio, più discriminazione, più materia, più dolore.
Lo so: apparentemente poco o nulla è cambiato nella nostra vita. La sveglia suona alla stessa ora, si fa lo stesso lavoro, nello scompartimento del treno squillano sempre i telefonini ed i giornali continuano ad uscire ogni giorno con la loro dose di mezze bugie e mezze verità. Ma è un’illusione, l’illusione di quel momento di silenzio che c’è fra il vedere una grande esplosione in lontananza ed il sentirne poi il botto. L’esplosione c’è stata: enorme, spaventosa. Il botto ci raggiungerà, ci assorderà. Potrebbe anche spazzarci via. Meglio prepararsi in tempo, riflettere prima che si debba correre, anche solo figurativamente, a cercare di salvare i bambini o a prendere qualche ultima cosa da mettere in borsa.
Il mondo è cambiato. Dobbiamo cambiare noi. Innanzitutto non facendo più finta che tutto è come prima, che possiamo continuare a vivere vigliaccamente una vita normale. Con quel che sta succedendo nel mondo la nostra vita non può, non deve, essere normale. Di questa normalità dovremmo avere vergogna.
Questa impressione che tutto era cambiato mi colpì immediatamente. Un amico mi aveva telefonato dicendo semplicemente: «Accendi la televisione, subito». Quando in diretta vidi il secondo aereo esplodere, pensai: «Pearl Harbor. Questa è una nuova guerra». Restai incollato davanti un po’ alla BBC, un po’ alla CNN per delle ore, poi uscii a fare una passeggiata nel bosco. Mi ricordo con quanto stupore mi accorsi che la natura era indifferente a quel che succedeva: le castagne cominciavano a maturare, le prime nebbie a salire dalla valle. Nell’aria sentivo il solito, lontano frusciare del torrente e lo scampanellio delle capre della Brunalba. La natura era assolutamente disinteressata ai nostri drammi di uomini, come se davvero non contassimo nulla e potessimo anche scomparire senza lasciare un gran vuoto.
Forse perché ho passato tutta la mia vita adulta in Asia e davvero sono ora convinto che tutto è uno e che, come riassume così bene il simbolo taoista di Yin e Yang, la luce ha in sé il seme delle tenebre e che al centro delle tenebre c’è un punto di luce, mi venne da pensare che quell’orrore a cui avevo appena assistito era… una buona occasione. Tutto il mondo aveva visto. Tutto il mondo avrebbe capito. L’uomo avrebbe preso coscienza, si sarebbe svegliato per ripensare tutto: i rapporti fra Stati, fra religioni, i rapporti con la natura, i rapporti stessi fra uomo e uomo. Era una buona occasione per fare un esame di coscienza, accettare le nostre responsabilità di uomini occidentali e magari fare finalmente un salto di qualità nella nostra concezione della vita.
Dinanzi a quel che avevo appena visto alla televisione e quel che c’era ora da aspettarsi non si poteva continuare a vivere normalmente, come tornando a casa vidi fare alle capre che brucavano l’erba.
Credo che in tutta la vita non sono mai stato davanti alla televisione quanto nei giorni che seguirono. Dalla mattina alla sera. Quasi non dormivo. In testa avevo sempre quella frase: una buona occasione. Per mestiere, dinanzi ad una verità ufficiale ho sempre cercato di vedere se non ce n’era una alternativa, nei conflitti ho sempre cercato di capire non solo le ragioni di una parte, ma anche quelle dell’altra.
Citazioni di “Lettere contro la guerra”
“Il terrorismo lo combatti eliminando le ragioni che lo rendono tale. “Ancor più di una coalizione contro il terrorismo, il mondo ha bisogno di una coalizione contro la povertà, una coalizione contro lo sfruttamento, contro l’intolleranza”.
“Dipende da quel che noi faremo, da come reagiremo a questa orribile provocazione, da come vedremo la nostra storia di ora nella scala della storia dell’umanità, il tipo di futuro che ci aspetta. Il problema è che fino a quando penseremo di avere il monopolio del «bene», fino a che parleremo della nostra come la civiltà, ignorando le altre, non saremo sulla buona strada.
L’Islam è una grande e inquietante religione con una sua tradizione di atrocità e di delitti (come tante altre fedi peraltro), ma è assurdo pensare che un qualsiasi cow-boy, pur armato di tutte le pistole del mondo, possa cancellare questa fede dalla faccia della terra. Meglio sarebbe aiutare i musulmani stessi a isolare, invece che renderle più virulente, le frange fondamentaliste e a riscoprire l’aspetto più spirituale della loro fede.”
“Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.
Niente nella storia umana è semplice da spiegare e tra un fatto ed un altro c’è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L’attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti.”
“Quella su cui avevo appena gettato uno sguardo era una società carica d’odio. Ma è da meno la nostra che ora, per vendetta o magari davvero per mettere le mani sulle riserve naturali dell’Asia centrale, bombarda un paese che vent’anni di guerra han già ridotto ad una immensa rovina? Possibile che per proteggere il nostro modo di vivere si debbano fare milioni di rifugiati, si debbano far morire donne e bambini? Per favore, vuole spiegarmi qualcuno esperto in definizioni che differenza c’è fra l’innocenza di un bambino morto nel World Trade Center e quella di uno morto sotto le nostre bombe a Kabul?
La verità è che quelli di New York sono i «nostri» bambini, quelli di Kabul invece, come gli altri 100.000 bambini afghani che, secondo l’UNICEF, moriranno quest’inverno se non arrivano subito dei rifornimenti, sono i bambini «loro». E quei bambini loro non ci interessano più. Non si può ogni sera, all’ora di cena, vedere alla televisione un piccolo moccioso afghano che aspetta di avere una pagnotta. Lo si è già visto tante volte; non fa più spettacolo. Anche a questa guerra ci siamo già abituati. Non fa più notizia e i giornali richiamano i loro corrispondenti, le televisioni riducono i loro staff, tagliano sui collegamenti via satellite dai tetti degli alberghi a cinque stelle di Islamabad. Il circo va altrove, cerca altre storie, l’attenzione è già stata anche troppa.
Eppure l’Afghanistan ci perseguiterà perché è la cartina di tornasole della nostra immoralità, delle nostre pretese di civiltà, della nostra incapacità di capire che la violenza genera solo violenza e che solo una forza di pace e non la forza delle armi può risolvere il problema che ci sta dinanzi.
«Le guerre cominciano nella mente degli uomini ed è nella mente degli uomini che bisogna costruire la difesa della pace», dice il preambolo della costituzione dell’UNESCO. Perché non provare a cercare nelle nostre menti una soluzione che non sia quella brutale e banale di altre bombe e di altri morti? Abbiamo sviluppato una grande conoscenza, ma non quella appunto della nostra mente, ed ancor meno quella della nostra coscienza”