Nel silenzio delle nostre parole è un romanzo di Simona Sparaco, pubblicato nel 2019, vincitore della prima edizione del Premio DeA Planeta. Ispirato da un evento realmente accaduto l’autrice indaga i momenti terribili in cui la vita e la morte si sfiorano diventando quasi la stessa cosa, e in cui le distanze che ci separano dagli altri vengono abbattute dall’amore più assoluto, quello che non conosce condizioni.
“Non c’è morte che non presupponga una rinascita. Imparare a decifrarla può dare un senso a tutto ciò che resta. Persino alla cenere.”
È mezzanotte e una nebbia sottile avvolge la metropoli addormentata. In un palazzo di quattro piani, dentro un appartamento disabitato, un frigorifero va in cortocircuito. Le fiamme, lente e invisibili dall’esterno, iniziano a divorare ciò che trovano.
Due piani più in alto, Alice scivola nel sonno mentre aspetta il ritorno di Matthias, il ragazzo che ama con una passione per lei nuova e del quale non è ancora riuscita a parlare a sua madre, che abita lontano e vorrebbe sapere tutto di lei. Anche Bastien, il figlio della signora che occupa un altro degli interni, da troppi mesi ormai avrebbe qualcosa di cruciale da rivelare alla madre, ma sa che potrebbe spezzarle il cuore e non trova il coraggio. È un altro tipo di coraggio quello che invece manca a Polina, ex ballerina classica, incapace di accettare il proprio corpo dopo la maternità, tantomeno il pianto incessante del suo bambino nella stanza accanto. Giù in strada, nel negozio di fronte, Hulya sta pensando proprio a lei, come capita sempre più spesso, senza averglielo mai confessato, ma con una voglia matta di farlo. Per tutti loro non c’è più tempo: un mostro di fuoco sta per stravolgere ogni prospettiva, costringendoli a scelte estreme per colmare quei silenzi, o per dare loro un nuovo significato.
“Quante parole ci diciamo che sono solo silenzio? Perché vorremmo dirne altre ma non abbiamo il coraggio di dargli voce. Almeno a me è questo che succede, soprattutto con te. E qualche volta il silenzio delle nostre parole si fa così assordante che ho bisogno di una via di fuga.”
Le recensioni sono molto positive, sembra che il premio vinto sia meritato. Si parla di uno stile scorrevole, ma profondo ed è riuscito a toccare le corde di molti lettori. Le recensioni negative non mancano e quelle che ho letto sono molto feroci, forse a mio parere un po’ troppo. Al momento sono riuscita a leggere solo l’estratto e mi ha catturata, mi ha fatto inserire questa lettura nella lista dei libri che leggerò. Adesso non resta che leggerlo.
“Diversamente da quelli che ho scritto finora, questo romanzo è nato leggendo un articolo di giornale. Un articolo scritto dal mio compagno Massimo Gramellini nel giugno del 2017, che intrecciava le storie di madri e di figli nel rogo della Grenfell Tower di Londra: un evento che ha scioccato mezzo mondo. Me compresa.
Leggendo le parole di Massimo, ho sentito come una serratura che mi si sbloccava dentro, e il bisogno di dare voce a quelle “scene madri”: fatti realmente accaduti, ma anche momenti salienti in cui la vita e la morte si sfiorano fino a confondersi, restituendo alla genitorialità un ruolo centrale.” Simona Sparaco
23 marzo, ore 23.41
Il cielo è terso, traforato di stelle, ma nascosto sporadicamente da una nebbia sottile che accarezza la città. Mentre l’oscurità tenta di spargersi sulla metropoli, un palazzo rivestito di intonaco rosa chiaro prende fuoco. Senza alcun segnale premonitore. Le fiamme, all’improvviso.
Di lì a qualche minuto l’incendio raggiungerà lo strato esterno e altrettanto rapidamente si propagherà lungo i quattro piani dell’edificio.
Si scoprirà che a innescarlo è stato il cortocircuito del frigorifero di un appartamento al secondo piano, l’interno 3B. Un quadrilocale di centotrenta metri quadri.
Nella cucina rivestita di linoleum gonfio e ingiallito c’è una bacheca tappezzata di disegni e vecchie fotografie, e nella credenza piena di polvere soltanto una confezione di biscotti scaduti e qualche bottiglia di superalcolico non ancora del tutto svuotata.
Le fiamme avanzano fino alle camere da letto, dove i materassi e i cuscini sono ricoperti di una patina opaca, e poi risalgono negli armadi pregni di naftalina, avvolgendosi a plaid tarlati e contenitori di plastica, per incontrare, infine, il tessuto morbido e altamente infiammabile delle tende di viscosa.
Due piani più in alto, c’è Alice. Nell’appartamento dove si trova, il fumo è ancora una foschia appena accennata. Se fosse sveglia, però, ne riconoscerebbe l’odore. Se fosse sveglia, avrebbe anche sentito il telefono al primo squillo. Ma sono ventuno anni che Alice di notte cade in sonni di marmo, come quelli dei bambini.
Sogna spesso di volare. Qualche volta precipita. Il suo corpo viene scosso da un sussulto proprio nel momento in cui sta per toccare terra. Di solito non si sveglia, anzi, cambia scenario e riprende il suo volo.
La madre, quando la chiamava per andare a scuola, le faceva cadere qualche goccia d’acqua sul viso. Adesso le servirebbero, poche gocce d’acqua. E sua madre.
Sul display illuminato lampeggia il nome di Matthias. Anche lui riuscirebbe a svegliarla, se fosse lì. Se non fosse rimasto intrappolato nell’ascensore.
Al terzo piano, anche Naima sta dormendo. Una volta in un libro ha letto che gli esseri umani sognano più i ritorni che le partenze. Nel sogno che sta facendo, suo figlio la sta chiamando dallo sgabuzzino della sua casa d’infanzia. È rintanato lì dentro, come se avesse paura, e la sua presenza in quella casa è un errore cronologico, che nel sogno diventa possibile: la chiama ripetutamente, con la voce da bambino, un bambino della stessa età che aveva lei quando abitava lì, ma ha la faccia da uomo, quella di adesso.
Quando apre gli occhi, quasi costringendosi, si rende conto che il fumo ha steso un velo tra lei e la stanza. Al primo respiro tossisce, e un brivido l’attraversa. Si volta di scatto verso il comodino per accendere la luce. Non funziona più.
Allunga una mano nella penombra per aggrapparsi alla sua sedia a rotelle, ma l’agitazione rende impreciso ogni movimento e inavvertitamente dà una spinta alla maniglia, che finisce troppo lontana perché possa afferrarla di nuovo.
Resta qualche secondo immobile, ricorda una marionetta disarticolata, con il busto in avanti e la mano riversa sul ginocchio. Non ha mai odiato il suo corpo inerte come in quella frazione di secondo. Prova a gridare aiuto, ma al posto della voce esce un rantolo che subito muore in un altro colpo di tosse.
Si porta entrambe le mani alla gola. Pensa al marito, lo immagina di là, addormentato davanti alla televisione, già stordito dal fumo.
Deve fare qualcosa. Se è vero che i sogni riguardano più i ritorni che le partenze, quando si è svegli le partenze possono essere l’unico appiglio. Naima raccoglie le forze e si sporge oltre la sponda del letto.
Si lascia cadere a terra, mettendo avanti le braccia per proteggersi il viso.
Il fiato si annienta nell’impatto. I seni rimangono schiacciati contro il pavimento. Poi il dolore nel riprendere il respiro e, a ogni colpo di tosse, una fitta acuta che le attraversa lo sterno.
Mentre punta i gomiti per strisciare verso la porta, i pensieri di Naima si fanno via via sempre più illogici e circolari, ma nemmeno per un istante si lascia sfiorare dall’idea di arrendersi: deve raggiungere suo marito.
Al piano di sotto vive Polina, proprio nell’appartamento accanto a quello dove è partito l’incendio. Era così stanca che non si è neanche cambiata. Indossa ancora i fuseaux della danza e una maglietta stinta con la scritta BELIEVE IT.
Sono giorni che non dorme. Suo figlio di due mesi non fa che piangere. Eppure lei lo allatta e lo cambia all’occorrenza, con la precisione che la contraddistingue. Forse il bambino ha le coliche, ha pensato un attimo prima di addormentarsi, scartando l’ipotesi che avesse voglia di essere tenuto in braccio.
Polina non lo sa tenere, in braccio. E non sa ritrovarsi nei pianti di suo figlio.
Mentre dorme lo sente di nuovo. Come una biscia serpeggia nel sonno. Ma è un pianto diverso, e per la prima volta ha la meglio sul sogno intermittente che Polina stava facendo. Finalmente, quel pianto, riesce a decifrarlo. È un alfabeto Morse che piano piano svela il proprio significato. Un grido di aiuto. Disperato.
La prima cosa che le arriva addosso è il calore. Alzandosi dal letto, l’avvolge come un manto. Le bruciano gli occhi e la gola mentre tenta di farsi strada nel buio. Il respiro è soffocato, i colpi di tosse lo chiudono a ogni tentativo di farsi più ampio. E intanto, con le braccia in avanti e il cuore che le rimbomba nelle orecchie, procede verso la carrozzina.
Il pianto è laggiù, da qualche parte. Ma sembra che diventi a ogni passo più distante.
Il palazzo, almeno all’esterno, non mostra ancora segni evidenti della sua ferita. Il fumo che fuoriesce da alcune finestre si confonde nella nebbia che copre la città e che il vento sta spazzando via, increspando anche le acque del fiume sottostante.