Leggere Dostoevskij è un saggio scritto da Hermann Hesse, uno dei più famosi scrittori tedeschi del XX secolo. In questo saggio, Hesse parla della sua passione per la lettura di Dostoevskij,
Fedor Dostoevskij fu uno dei maggiori esponenti della letteratura russa dell’Ottocento, ma è stato molto di più, fu un grande conoscitore dell’uomo, è questo fu il suo dono, la sua arte, esercitando un’enorme influenza sulla letteratura moderna.
Lo stesso Freud lo ha considerato il precursore della psicoanalisi, incentrando le sue opere in quello che definisce “il sottosuolo”, i suoi romanzi sono confessioni, spesso inconfessabili, che i personaggi fanno a se stessi e poi ad altri, riesce a descrivere il caos nel quale l’individuo si dibatte tra i principi del bene e del male, nella contraddittorietà umana. Sebbene sia trascorso più di un secolo e mezzo dalla sua morte riesce a tenere viva la sua modernità.
Perché leggere Dostoevskij
Lo spiega bene Hermann Hesse che, nel marzo 1925, recensisce su un quotidiano una nuova edizione delle opere di Dostoesvskij, dando vita ad un saggio nel quale traspare l’amore per la scrittura di Dostoevskij, senza però essere parziale, ma con una straordinaria descrizione analitica.
Hesse analizza la vita e l’opera di Dostoevskij, concentrandosi sulla sua capacità di esplorare la psicologia umana in modo profondo e complesso. L’autore tedesco sottolinea l’importanza della lettura di Dostoevskij per capire meglio la natura umana e per affrontare le grandi domande dell’esistenza.
Hesse sottolinea anche il fatto che la lettura di Dostoevskij può essere difficile e talvolta sconvolgente, a causa della profondità e della complessità delle tematiche affrontate. Tuttavia, l’autore tedesco sostiene che il valore di questo tipo di lettura è immenso, in quanto aiuta il lettore a sviluppare una maggiore consapevolezza di sé e del mondo intorno a lui.
Su Dostoevskij non si può dire niente di nuovo. Ciò che si può dire, sul suo conto, di giusto e di intelligente, è già stato detto tutto, è già stato, a suo tempo, nuovo e spiritoso, e nel frattempo è invecchiato, mentre l’amata e terribile figura dello scrittore ci riappare sempre involta di mistero e di enigmi, ogniqualvolta, in un’ora di crisi e di raccoglimento, torniamo a essa.
Il borghese che legge Delitto e castigo e che, steso sul canapè, attinge a questo mondo spettrale un brivido piacevole non è il vero lettore di Dostoevskij, come non lo è il dotto e il raffinato che ammira la psicologia dei suoi romanzi e scrive buoni saggi sulla sua Weltanschauung.
Dobbiamo leggere Dostoevskij quando ci sentiamo a terra, quando abbiamo sofferto sino ai limiti del tollerabile e tutta la vita ci duole come un’unica piaga bruciante e cocente, quando respiriamo la disperazione e siamo morti di mille morti sconsolate. Allora, nel momento in cui – soli e paralizzati in mezzo allo squallore – volgiamo lo sguardo alla vita e non la comprendiamo nella sua splendida, selvaggia crudeltà e non ne vogliamo più sapere, allora, ecco, siamo maturi per la musica di questo terribile e magnifico poeta.
Allora, infatti, non siamo più spettatori, non siamo più giudici e degustatori, ma siamo dei poveretti in mezzo a tutti i poveri diavoli dei suoi romanzi, e soffriamo le loro pene, fissiamo anche noi, ammaliati e senza respiro, il vortice della vita, la macina instancabile della morte. E in quei momenti avvertiamo anche la musica di Dostoevskij, il suo conforto, il suo amore, e solo allora sperimentiamo il senso meraviglioso del suo terrificante e spesso così infernale mondo poetico.
Due forze ci afferrano nei suoi libri, dal flusso e riflusso, dal contrasto tra due elementi e poli opposti nasce la profondità mitica, la poderosa spazialità della sua musica.
La prima è la disperazione, l’accettazione del male, il subire, il non più opporsi alla crudele, sanguinosa durezza e problematicità della natura umana. Di questa morte bisogna morire, quest’inferno dev’essere attraversato, se si vuole che anche l’altra voce del maestro, quella celestiale, giunga fino a noi. La nuda sincerità con cui si confessa che la nostra vita umana è una cosa misera, incerta e forse disperata è l’indispensabile premessa. Dobbiamo esserci arresi al dolore, abbandonati alla morte, il ghigno infernale della realtà nuda e cruda deve aver raggelato i nostri occhi, prima che si possa essere in grado di accogliere la profondità e la verità dell’altra, della seconda voce.
La prima voce dice di sì alla morte, di no alla speranza, rinuncia a tutti gli abbellimenti, a tutti gli eufemismi concettuali e poetici con cui siamo abituati a lasciarci mascherare i pericoli e le efferatezze dell’esistenza umana da parte di certi piacevoli scrittori. Ma la seconda voce, la seconda voce davvero celestiale di questo autore, ci indica, dall’altra parte – quella celestiale –, un elemento diverso dalla morte, un’altra realtà, un’essenza differente: cioè la coscienza dell’uomo. Sia pure, tutta la vita umana, guerra e dolore, bassezza e atrocità: c’è però pur sempre qualcos’altro, la coscienza, ossia la facoltà insita nell’uomo di contrapporsi a Dio. Certo, anche la coscienza ci conduce attraverso il dolore e il terrore della morte, ci porta alla miseria e alla colpa, ma ci fa uscire dall’insopportabile solitudine dell’assurdo, ci mette in contatto col senso delle cose, con la loro essenza, con l’eternità. La coscienza non ha nulla a che fare con la morale, con la legge, può anzi porsi con esse nel più tremendo e mortale contrasto, ma è smisuratamente forte, è più forte dell’accidia, più forte dell’egoismo, più forte della vanità. Anche nella più profonda abiezione, nello smarrimento estremo ha sempre una stretta via aperta non già verso il mondo consacrato alla morte ma, al di là di esso, verso Dio. Difficile è la via che porta l’uomo verso la propria coscienza, quasi tutti vivono costantemente in urto con tale coscienza, vi si ribellano, si caricano di pesi sempre più gravi, muoiono a forza di soffocarla, la loro coscienza, ma a ciascuno e in ogni momento, al di là dei dolori e delle disperazioni, resta aperta quella via silenziosa che dà senso alla vita e allevia la morte. C’è chi deve tempestare e peccare contro la propria coscienza finché ha conosciuto tutti gli inferni e si è insozzato di tutte le atrocità, per riconoscere, finalmente, con un sospiro di sollievo, il proprio errore e aprirsi a una trasformazione interna. Altri vivono in buona amicizia con la loro coscienza – creature rare, sante e felici – e qualunque cosa loro accada, li colpisce solo all’esterno, non li ferisce mai nel cuore, restano sempre puri e dal loro volto non scompare mai il sorriso. Uno di costoro è il principe Myškin.
Queste due voci, questi due messaggi li ho sentiti in Dostoevskij quando ero un buon lettore dei suoi libri, cioè nelle ore in cui il dolore e la disperazione mi avevano preparato a capirlo. C’è un artista che mi ha fatto sentire qualcosa di analogo, un musicista che non in ogni momento sono disposto ad amare e ad ascoltare, così come non sempre avrei voglia di leggere Dostoevskij. È Beethoven. Egli ha quella conoscenza della felicità, della saggezza e dell’armonia, che però non si trovano lungo facili sentieri, ma lampeggiano a tratti lungo la via che costeggia l’abisso, che non si colgono sorridendo, ma solo tra le lacrime ed esausti dal dolore. Nelle sue sinfonie, nei suoi quartetti ci sono dei punti in cui, da un mare di miseria e di squallore, si accende, commovente, infantile e delicato oltre ogni dire, qualcosa che è come l’intuizione del senso del mondo, come la certezza di una redenzione. Questi punti li ritrovo in Dostoevskij.
di Hermann Hesse
Saggio pubblicato in Italia col titolo “Saggi – Poesie scelte” di Hermann Hesse, Mondadori, 1965, oggi introvabile. Però lo potete leggere nella postfazione del L’idiota di Fëdor Dostoevskij, nuova edizione sempre Mondadori.