Per niente al mondo è un romanzo di Ken Follett, pubblicato il 9 novembre 2021, da Mondadori, traduzione di Annamaria Raffo. Ambientato ai giorni nostri narra di una crisi globale che minaccia di sfociare nella terza guerra mondiale, lasciando il lettore nell’incertezza fino all’ultima pagina, si muove tra il cuore rovente del deserto del Sahara e le stanze inaccessibili del potere delle grandi capitali del mondo.
“Mentre facevo ricerche per La caduta dei giganti, sono rimasto scioccato nel rendermi conto che la Prima guerra mondiale è stata una guerra che nessuno voleva. Nessun leader europeo, dell’uno o dell’altro schieramento, aveva intenzione di arrivare a tanto. Eppure, a uno a uno, imperatori e primi ministri presero decisioni – decisioni logiche e ponderate –, ognuna delle quali condusse, a piccoli passi, al peggior conflitto che il mondo avesse mai conosciuto. Mi sono convinto che si era trattato di un tragico incidente.
E mi sono chiesto se sarebbe potuto accadere di nuovo.”
Nel cuore rovente del deserto del Sahara, due giovani e intraprendenti agenti segreti – l’americana Tamara Levit e il francese Tab Sadoul – sono sulle tracce di un pericoloso gruppo di terroristi islamici, mettendo così a rischio la loro vita. Quando si innamorano, le loro carriere arrivano inevitabilmente a un punto di svolta. Poco distante Kiah, una vedova coraggiosa e bellissima, decide di abbandonare il suo paese flagellato da carestia e rivolte e partire illegalmente per l’Europa con il suo bambino, nella speranza di cominciare una nuova vita. Nel corso del suo viaggio disperato viene aiutata da Abdul, un uomo misterioso che potrebbe non essere chi dice di essere. A Pechino la visione riformista e moderna di Chang Kai, l’ambizioso viceministro dei servizi segreti esteri, lo costringe a fare i conti con i vertici comunisti del potere politico che potrebbero portare la Cina e il suo alleato, la Corea del Nord, sulla via del non ritorno. Intanto Pauline Green, la prima donna presidente degli Stati Uniti, deve gestire i rapporti sempre più tesi con i suoi oppositori, mentre l’intero pianeta è scosso da un vortice di ostilità politiche, attacchi terroristici e dure rappresaglie. La presidente farà tutto il possibile per evitare lo scoppio di una guerra non necessaria. Ma la tensione internazionale cresce e si moltiplicano le azioni militari: è ancora possibile fermare quella che sembra un’escalation inevitabile?
“Da giovane aveva cercato di comprendere chi detenesse realmente il potere. Era il presidente, che era capo dell’esercito, oppure i membri della direzione del partito nella loro collegialità? O il presidente americano, i media americani, o i miliardari? A poco a poco aveva capito che erano tutti vincolati, ognuno a suo modo. Il presidente americano era manovrato dall’opinione pubblica, quello cinese dal Partito comunista. I miliardari dovevano realizzare profitti, i generali dovevano vincere le battaglie. Il potere non risiedeva in un unico luogo, ma in un sistema estremamente complesso, formato da un gruppo di persone e istituzioni chiave, senza una volontà collettiva, che premevano in direzioni diverse.
E lui ne faceva parte. Quello che accadeva sarebbe stato colpa sua come di chiunque altro.”
Un romanzo che potremmo collocare tra i distopici, qualsiasi genere Follett tocchi non cade mai nello scontato, non lo fa nemmeno adesso regalando una trama articolata e tanti personaggi, piena di sotto trame che camminano in parallelo per poi intrecciarsi. Però le recensioni sono molto contrastati, molti si chiedono se sia stato l’amato autore a scrivere questo romanzo, per altri 700 pagine si potevano ridurre, alcuni hanno scritto che c’è troppo e si fa fatica a seguire gli eventi. Ken Follett ci ha da sempre abituato a letture impegnative e molti altri lettori hanno invece gradito questo libro, considerandolo spiazzante ed apprezzando anche l’escalation di emozioni terribili e claustrofobiche.
Per molti anni James Madison, con il suo metro e sessantadue di altezza, aveva detenuto il titolo di presidente più basso nella storia degli Stati Uniti. Poi era arrivata la presidente Green a infrangere il suo record. Pauline Green era alta un metro e cinquanta. E le piaceva ricordare che Madison aveva sconfitto DeWitt Clinton, alto un metro e novanta.
Aveva rinviato già due volte quella visita a Munchkin Country. Era stata messa in programma in ognuno dei primi due anni del suo mandato, ma c’era sempre qualcosa di più importante da fare. Questa volta sentì il dovere di andare. Era una tiepida mattinata di settembre del suo terzo anno di presidenza.
Quella esercitazione era una simulazione di eventi complessi, e aveva lo scopo di far familiarizzare le figure apicali del governo con le azioni da intraprendere in caso di un’emergenza. Fingendo che gli Stati Uniti fossero sotto attacco, la presidente si allontanò in fretta dallo Studio Ovale uscendo sul prato sud della Casa Bianca.
La seguiva a passo svelto un piccolo gruppo di persone che raramente si allontanavano da lei: il consigliere per la Sicurezza nazionale, la sua segretaria personale, due guardie del corpo dei servizi segreti e un giovane capitano dell’esercito che portava una valigetta rivestita di cuoio chiamata atomic football, contenente tutto ciò che le serviva per dare inizio a una guerra nucleare.
La presidente aveva a disposizione una flotta di elicotteri, e quello che di volta in volta utilizzava veniva designato con il nome Marine One. Come sempre, un marine in uniforme blu assistette sull’attenti mentre Pauline si avvicinava e saliva a passo leggero la scaletta.
La prima volta che aveva viaggiato a bordo di un elicottero, qualcosa come venticinque anni prima, era stata un’esperienza sgradevole. Ricordava sedili rigidi di metallo e un abitacolo angusto e così rumoroso che era impossibile parlarsi. Questo era diverso. L’interno del velivolo era simile a quello di un jet privato, con comodi sedili imbottiti di pelle beige, aria condizionata e una piccola toilette.
Il consigliere per la Sicurezza nazionale, Gus Blake, sedeva accanto a lei. Generale in pensione, era un afroamericano grande e grosso con la carnagione scurissima e i capelli grigi tagliati corti. Emanava un rassicurante senso di forza. Aveva cinquantacinque anni, cinque più di Pauline. Era stato un elemento fondamentale della sua squadra nella campagna elettorale per le presidenziali, e adesso era il suo più stretto collaboratore.
«Grazie per aver accettato» le disse mentre decollavano. «So che non volevi farlo.»
Aveva ragione. Pauline era contrariata per quella distrazione e impaziente di togliersi il fastidio. «È uno di quei compiti ingrati a cui non ci si può sottrarre» rispose.
Fu un viaggio breve. Mentre l’elicottero scendeva, Pauline controllò il proprio aspetto in uno specchio da borsetta. Il caschetto biondo e corto era a posto, e così pure il trucco leggero. Aveva dei begli occhi nocciola capaci di mostrare compassione, anche se talvolta le sue labbra si tendevano in una linea dritta che le dava un’espressione inflessibile e determinata. Richiuse lo specchietto con un colpo secco.
Atterrarono davanti a un complesso di magazzini nel Maryland. La denominazione ufficiale era Centro di stoccaggio numero 2 dell’archivio remoto del governo degli Stati Uniti, ma le poche persone che erano a conoscenza della sua vera funzione lo chiamavano Munchkin Country, come il luogo in cui era finita Dorothy durante il tornado nel Mago di Oz.
Munchkin Country era un segreto. Tutti sapevano del Raven Rock Complex in Colorado, il bunker antiatomico sotterraneo in cui i leader militari avrebbero trovato rifugio in caso di guerra nucleare. Era una struttura che esisteva realmente e che avrebbe avuto un ruolo importante, però non era lì che la presidente sarebbe andata. Molte persone sapevano anche che sotto l’ala est della Casa Bianca c’era il centro operativo presidenziale d’emergenza, usato nelle crisi come quella dell’Undici settembre. Ma non era progettato per un utilizzo a lungo termine in uno scenario post apocalittico.
Munchkin Country era in grado di mantenere in vita un centinaio di persone per un anno.
La presidente Green fu accolta da un certo generale Whitfield. Prossimo alla sessantina, grassoccio, aveva il volto rotondo e modi affabili che facevano intuire una decisa mancanza di aggressività. Pareva il tipo che non è impaziente di ammazzare nemici, il che dopotutto era quello a cui servivano i soldati. La sua mitezza poteva essere il motivo per cui era finito lì.
Era un vero centro di stoccaggio, con tanto di cartelli che indicavano la zona di scarico ai camion delle consegne. Whitfield guidò il gruppo attraverso una porticina laterale e fu lì che tutto cambiò.
Si trovarono davanti una massiccia porta a due battenti che non avrebbe sfigurato all’ingresso di un carcere di massima sicurezza.
Il locale a cui dava accesso era soffocante: soffitto basso e pareti che sembravano più vicine, come se fossero spesse un metro. L’aria aveva un che di artificiale.
«Lo scopo principale di questo locale a prova di esplosione è essenzialmente quello di proteggere gli ascensori» disse Whitfield.
Appena entrarono in ascensore, l’impazienza di Pauline svanì, e con essa la sensazione di essere impegnata in un’esercitazione di dubbia utilità. Tutto cominciò ad apparirle inquietante.
«Con il suo permesso, signora presidente» disse Whitfield «scenderemo fino al livello più basso e poi risaliremo gradualmente.»
«Benissimo, generale. La ringrazio.»
Mentre l’ascensore scendeva, lui proseguì orgoglioso: «Questa struttura le garantisce protezione totale nel caso che gli Stati Uniti venissero a trovarsi in una delle seguenti situazioni: una pandemia o una pestilenza, un disastro naturale tipo quello causato dalla caduta di un meteorite sulla terra, tumulti e gravi disordini civili, un’invasione da parte di forze militari convenzionali, un attacco informatico, una guerra nucleare».
Se quell’elenco di possibili catastrofi aveva lo scopo di tranquillizzare Pauline, sortì l’effetto contrario. Le rammentò che la fine della civiltà era possibile e che lei avrebbe potuto trovarsi nella condizione di cercare rifugio in quella cavità sotterranea per tentare di salvare il resto dell’umanità.
Si disse che probabilmente avrebbe preferito morire in superficie.
L’ascensore scendeva veloce e parve fare molta strada prima di rallentare. Quando, finalmente, si fermò, Whitfield disse: «Se l’ascensore avesse dei problemi, ci sono le scale».
Era una battuta e i più giovani del gruppo risero pensando al numero infinito di gradini. Pauline, invece, si ricordò di quanto tempo avevano impiegato le persone per scendere le scale del World Trade Center in fiamme, e non accennò neppure un sorriso.
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