Violeta è un romanzo di Isabel Allende, pubblicato il 3 febbraio 2022, da Feltrinelli, tradotto da Elena Liverani. La storia di una donna cha ha vissuto un secolo con i suoi sconvolgimenti, ma anche con passione, determinazione e senso dell’umorismo. Adesso è pronta a scrivere al nipote Camilo per lasciargli la sua testimonianza.
“Caro Camilo,
lo scopo di queste pagine è di lasciarti una testimonianza, perché credo che in un futuro lontano, quando sarai vecchio e penserai a me, la memoria ti verrà meno dato che sei sempre sovrappensiero, difetto che si accentua con l’età. La mia vita merita di essere raccontata, più che per le mie virtù per i miei peccati, molti dei quali nemmeno sospetti. E quindi ora te li racconto e ti accorgerai che la mia vita è un romanzo.
Sei il depositario delle mie lettere, su cui è riportata la mia intera esistenza, a eccezione di alcuni peccati cui accennavo prima, ma devi tener fede alla promessa che quando morirò le brucerai, perché sono sentimentali e spesso astiose. Queste pagine sostituiranno quell’eccessiva corrispondenza.”
La trama di «Violeta»
Violeta nasce in una notte tempestosa del 1920, prima femmina dopo cinque turbolenti maschi. Fin dal principio la sua vita è segnata da avvenimenti straordinari, con l’eco della Grande guerra ancora forte e il virus dell’influenza spagnola che sbarca sulle coste del Cile quasi nel momento esatto della sua nascita. Grazie alla previdenza del padre, la famiglia esce indenne da questa crisi solo per affrontarne un’altra quando la Grande depressione compromette l’elegante stile di vita urbano che Violeta aveva conosciuto fino ad allora. La sua famiglia perde tutto ed è costretta a ritirarsi in una regione remota del paese, selvaggia e bellissima. Lì la ragazza arriva alla maggiore età e conosce il suo primo pretendente. Violeta racconta in queste pagine la sua storia a Camilo in cui ricorda i devastanti tormenti amorosi, i tempi di povertà ma anche di ricchezza, i terribili lutti e le immense gioie. Sullo sfondo delle sue alterne fortune, un paese di cui solo col tempo Violeta impara a decifrare gli sconvolgimenti politici e sociali. Ed è anche grazie a questa consapevolezza che avviene la sua trasformazione con l’impegno nella lotta per i diritti delle donne. Una vita eccezionalmente ricca e lunga un secolo, che si apre con la pandemia dell’influenza spagnola e si chiude con il Covid.
“C’è un tempo per vivere e un tempo per morire. E tra i due, c’è il tempo per ricordare. È quel che ho fatto nel silenzio di questi giorni in cui ho potuto scrivere i dettagli mancanti per completare le pagine che ti scrivo, un testamento sentimentale più che disposizioni di ordine materiale. Da alcuni anni non riesco più a scrivere a mano, la mia grafia è illeggibile, ho perduto l’elegante scrittura di un tempo imparata da Miss Taylor quand’ero bambina, ma l’artrite non mi impedisce di usare il computer, l’estensione più utile del mio corpo storpiato. Mi prendi in giro, Camilo, dici che sono l’unica centenaria moribonda più attaccata al computer che alle preghiere.”
La scrittrice cilena ci ha abituato a personaggi femminili particolari e coraggiosi, i suoi romanzi sanno di memoir, mescolano vite fittizie con fatti reali, pescando spesso tra i ricordi della stessa scrittrice. Anche questo romanzo non fa eccezione, che ci ricorda la madre della scrittrice, “mamma Panchita”, già raccontata in Donne dell’anima mia, perché Violeta ha vissuto negli stessi anni di Panchita. Isabel Allende racconta che lei e sua madre si sono scambiate lettere per tutta la vita, le scriveva tutti i giorni e questo l’aiutava anche a fare un resoconto della giornata. Quando la madre si stava avvicinando alla fine le ha restituito le lettere, lei le ha catalogate per anni e conservate in una scatola. Successivamente suo figlio le ha digitalizzate per preservarle dal tempo e dall’umidità, e ha calcolato che, tra le sue e quelle di sua madre, sono 24.000 lettere.
Dopo la morte di sua madre, tre anni fa, a 98 anni, ha sentito l’esigenza di scrivere di lei, ma era ancora emotivamente troppo presto. Nel marzo del 2020, durante l’isolamento per il coronavirus, ha pensato alla madre che per poco non ha vissuto anche questa pandemia, un secolo esatto tra la nascita di sua madre, in piena epidemia spagnola e quella che stiamo vivendo. Così Violeta ha preso vita.
“Il viaggio della vita è fatto di lunghi tratti noiosi, un passo dopo l’altro, giorno dopo giorno, senza che succeda niente di sconvolgente, ma la memoria si forma con gli eventi imprevisti che segnano il percorso. Sono questi che vale la pena narrare. Una vita lunga come la mia annovera persone e molti eventi indimenticabili, e io ho la fortuna di avere buona memoria; a differenza del mio povero corpo malconcio, il cervello è rimasto intatto. Ricordare è il mio vizio …”
Le recensioni
Le recensioni sono tutte molto positive per questa storia lunga cento anni, questo mi fa un gran piacere visto che è tra le mie scrittrici preferite. Si parla di questo romanzo come di un ritorno alle origini, riuscendo a smuovere emozioni, meraviglia e poesia. Non resta che leggerlo.
Incipit di “Violeta”
1.
Sono venuta al mondo un venerdì di tempesta del 1920, l’anno del flagello. La sera della mia nascita era saltata la corrente, come spesso succedeva durante i temporali, ed erano state accese le candele e i lumi a petrolio, sempre a portata di mano per le situazioni di emergenza. María Gracia, mia madre, sentì le contrazioni, che ormai riconosceva facilmente dopo aver già partorito cinque figli e, rassegnata all’arrivo di un altro maschio, si abbandonò al dolore aiutata dalle due sorelle che, avendola assistita in quel frangente diverse volte, riuscivano a mantenersi lucide. Il medico di famiglia lavorava senza sosta da settimane in uno degli ospedali di campagna e sembrò loro un’esagerazione farlo chiamare per una cosa banale come un parto. Nelle occasioni precedenti avevano potuto far conto sull’ausilio di una levatrice, sempre la stessa, ma la donna era stata una delle prime vittime dell’influenza e non ne conoscevano un’altra.
Mia madre aveva calcolato di aver trascorso tutta la sua vita di donna adulta o incinta o puerpera o in convalescenza dopo un aborto spontaneo. Il suo primo figlio, José Antonio, aveva compiuto diciassette anni, di questo era sicura perché era nato l’anno di uno dei nostri peggiori terremoti, che aveva raso al suolo mezzo paese con un bilancio di migliaia di morti, ma non ricordava con precisione l’età degli altri figli né quante gravidanze non portate a termine aveva avuto. Ogni gravidanza la limitava per mesi, ogni parto la lasciava sfinita e malinconica per molto tempo. Prima di sposarsi era stata la debuttante più bella della capitale, snella, con un viso indimenticabile dagli occhi verdi e la pelle luminosa, ma le gestazioni avevano sformato il corpo e svuotato l’anima.
In teoria amava i suoi figli, ma nella pratica preferiva tenerli a debita distanza, perché quel drappello di ragazzi irrompeva con la turbolenza di un battaglione nel suo piccolo regno femminile. In un’occasione rivelò al suo confessore di essere predestinata a partorire solo maschi per una maledizione del diavolo. Come penitenza dovette recitare il rosario ogni giorno per due anni e fare una significativa donazione per i lavori di rifacimento della chiesa. Suo marito le proibì di tornare a confessarsi.
Sotto la supervisione di mia zia Pilar, Torito, il ragazzo tuttofare, si arrampicò su una scala e assicurò le corde, conservate in un armadio per quelle occasioni, a due ganci di acciaio che lui stesso aveva attaccato al soffitto. Mia madre, inginocchiata in camicia da notte e aggrappata alle corde, spinse per un tempo che le parve eterno, prorompendo in imprecazioni da scaricatore di porto cui non era mai ricorsa in altre circostanze. Mia zia Pía, china tra le sue gambe, era pronta a ricevere il neonato prima che toccasse terra. Aveva già preparato gli infusi a base di ortica, artemisia e ruta da somministrare dopo il parto. Il frastuono della tempesta che si abbatteva sulle persiane e sollevava le tegole del tetto attutì i gemiti e il lungo grido finale che mi accompagnò appena iniziai a mettere fuori la testa e poi il corpo, ricoperto di sangue e sostanze così viscose che scivolai tra le mani di mia zia schiantandomi sul pavimento di legno.
“Ma che imbranata che sei, Pía!” gridò zia Pilar tirandomi su per un piede. “È una bambina!” aggiunse, meravigliata.
“È impossibile, guarda bene,” biascicò mia madre, esausta.
“Fidati, non ha il pistolino,” rispose sua sorella.