Afrodita è una raccolta di racconti che si fonda su un patrimonio di ricette rubate alla madre che l’autrice, Isabel Allende, utilizza come viatico che la riconduce alla memoria, ai piaceri della memoria. Indagando il piacere dell’amore e quello della cucina, di amici inseparabili, Allende sottolinea come il legame tra erotismo e gastronomia colori le sue riflessioni, dia corpo alle sue espressioni letterarie.
I cinquant’anni sono come l’ultima ora del pomeriggio, quando il sole tramontato ci dispone spontaneamente alla riflessione. Nel mio caso, tuttavia, il crepuscolo mi induce al peccato. Forse per questo, arrivata alla cinquantina, medito sul mio rapporto con il cibo e l’erotismo, le debolezze della carne che più mi tentano, anche se, a ben guardare, non sono quelle che più ho praticato.
Isabel Allende conosce il gusto lieve e giocoso della vita. La troviamo alle prese con il mondo della cucina, tempio del piacere dei sensi e anticamera del “piacere dei piaceri”. In un invito alla gioia dietro il grembiule, un gioco per nutrirsi e inebriarsi senza prendersi troppo sul serio. Dalla salsa corallina alle pere ubriache, dall’habanera di gamberi all’insalata delle odalische, dalla zuppa scacciapensieri alle ciliegie civettuole: un patrimonio di ricette piccanti e spiritose condite con le spezie dell’ironia.
“Sesso e appetito sono i grandi motori della storia, conservano e diffondono la specie, provocano guerre e ispirano canzoni, informano le religioni, la legge e l’arte. L’intero creato è un processo ininterrotto di digestione e fertilità; tutto si riduce a organismi che si divorano l’un l’altro, si riproducono, muoiono, fertilizzano la terra e rinascono trasformati.”
Passeggiando per i giardini della memoria, tra gli spiriti del passato e quelli del futuro, Isabel Allende scopre che i suoi ricordi sono indissolubilmente legati ai sensi. E che il piacere dell’amore e quello della cucina, amici inseparabili, accompagnano la sua vita e la sua arte, le sue storie e i suoi desideri. I legami tra erotismo e gastronomia colorano le sue riflessioni, guarniscono le sue leggende familiari, insaporiscono i suoi incontri. Allende decide allora di mescolare racconti e ricette per dividere con il lettore i segreti della sua cucina e della sua intimità. Incurante dei rigidi confini che separano i generi letterari, l’Allende si aggira scanzonata e pungente tra facezie e tabù sessuali, strizzando l’occhio con piccante leggerezza a usi amorosi e costumi afrodisiaci.
“come la poesia, il pane è una vocazione piuttosto malinconica che richiede principalmente tempo libero per l’anima. Il poeta e il panettiere sono fratelli nel fondamentale compito di nutrire l’umanità.”
Il tutto è servito con tanti disegni, un pizzico di divertita misura e una spruzzata di delicata autoironia. La ricette ‘rubate’ alla madre fanno di Afrodita anche una gioiosa celebrazione della genealogia femminile; la madre non si limita a dare corpo, a dare alla luce, ma trasmette alla figlia i sapori della vita e i saperi del piacere. Le ricette sono semplici ed efficaci anche per chi, dietro i fornelli, non si sente a casa e la magia della narrazione è quella di sempre, la vita mette a nostra disposizione sapori e amori gustosi, prelibati, divertenti. A noi il compito di assaggiare.
Le ricette sono di Panchita Llona.
Mi pento delle diete, dei piatti prelibati rifiutati per vanità, come mi rammarico di tutte le occasioni di fare l’amore che ho lasciato correre per occuparmi di lavori in sospeso o per virtù puritana. Passeggiando per i giardini della memoria, scopro che i miei ricordi sono associati ai sensi. Mia zia Teresa, quella che si trasformò lentamente in angelo e che quando morì aveva germogli di ali sulle spalle, è legata per sempre all’odore delle pastiglie alla violetta. Quando quell’incantevole signora faceva capolino per una visita, con il vestito grigio illuminato con discrezione da un colletto di pizzo e il capo regale incorniciato dalla neve, noi bambini le correvamo incontro e lei apriva con gesti rituali la sua vecchia borsetta, sempre la stessa, estraeva una scatoletta di latta dipinta e ci dava una caramella color malva. E da allora, ogni volta che l’aroma inconfondibile di violette si insinua nell’aria, la mia anima ritrova intatta l’immagine di quella santa zia, che rubava i fiori dai giardini degli altri per portarli ai moribondi dell’ospizio. Quarant’anni dopo ho scoperto che quello era l’emblema di Giuseppina Bonaparte, che si affidava ciecamente al potere afrodisiaco di quel fuggevole aroma che assale all’improvviso con un’intensità quasi nauseabonda, per sparire senza lasciare traccia e tornare immediatamente con rinnovato ardore. Le cortigiane dell’antica Grecia lo usavano prima di ogni incontro galante per profumarsi l’alito e le zone erogene, perché mescolato all’odore naturale della traspirazione e delle secrezioni femminili mitiga la malinconia dei più vecchi e scuote in modo irresistibile lo spirito dei giovani. Nel tantra, la filosofia mistica e spirituale che esalta l’unione tra gli opposti a tutti i livelli, da quello cosmico al più infimo, e nella quale l’uomo e la donna sono specchi di energie divine, il colore della violetta è quello della sessualità femminile e per questo motivo alcuni movimenti femministi l’hanno fatto proprio.
L’odore penetrante dello iodio non mi evoca immagini di ferite o interventi chirurgici, bensì di ricci, strane creature marine irrimediabilmente legate alla mia iniziazione al mistero dei sensi. Avevo otto anni quando la ruvida mano di un pescatore mi mise in bocca un’ovaia di riccio. Quando torno in Cile, cerco sempre di trovare il tempo di andare sulla costa ad assaggiare di nuovo i ricci appena strappati al mare, e ogni volta mi assale lo stesso miscuglio di terrore e fascinazione che ho provato durante quel primo incontro intimo con un uomo. Per me i ricci sono inseparabili da quel pescatore, la borsa scura di frutti di mare che gocciola acqua e il mio risveglio alla sensualità. Gli uomini che sono passati dalla mia vita – non voglio vantarmi, non sono molti – li ricordo così, alcuni per la qualità della loro pelle, altri per il sapore dei loro baci, l’odore dei loro indumenti o il tono dei loro sussurri, e quasi tutti sono associati a un alimento particolare. Il piacere carnale più intenso, goduto senza fretta in un letto disordinato e clandestino, combinazione perfetta di carezze, risate e giochi della mente, sa di baguette, prosciutto, formaggio francese e vino del Reno. Ognuno di questi tesori della cucina fa comparire davanti a me un uomo in particolare, un antico amante che ritorna insistente come un fantasma desiderato a infondere una certa luce malandrina nella mia età matura. Quel pane con prosciutto e formaggio mi restituisce l’odore dei nostri abbracci e quel vino tedesco il sapore della sua bocca. Non posso separare l’erotismo dal cibo e non vedo nessun buon motivo per farlo; al contrario, ho intenzione di continuare a godere di entrambi fino a quando le forze e il buon umore me lo consentiranno. Da qui nasce l’idea di questo libro, un viaggio senza carta geografica attraverso le regioni della memoria sensuale, là dove i confini tra l’amore e l’appetito a volte sono talmente labili da confondersi completamente.