Il leone e la pantera. Lettere d’amore a Lidia sono 90 lettere scelte per documentare l’evolversi della relazione tra Giosuè Carducci e Carolina Cristofori Piva, che sono state per la prima volta ricontrollate sugli originali conservati nel Museo-biblioteca Casa Carducci di Bologna e reintegrate nella loro lezione originaria, talora censurata nella Edizione Nazionale e pubblicate da Salerno Editrice.
Il ” leone ” evocato’ nel titolo è Giosuè Carducci, da tempo professore di Letteratura italiana a Bologna quando incontra, nel 1872, la “pantera” Carolina Cristofori Piva, seducente moglie del militare di carriera Domenico Piva. Tra i due divampa subito una prorompente passione, testimoniata dalle circa seicento lettere scritte dal poeta nell’arco dei sei anni della loro relazione, durante i quali, però, gli incontri furono piuttosto radi. La giovane musa, tuttavia, ribattezzata Lidia e forse da lui resa madre, ispira in questo periodo al Carducci alcune tra le sue liriche più fascinose.
Mio, dolce amore,
Come devo fare a spiegarti quello che è successo in me in questi ultimi tempi, in modo che tu mi creda e non mi rivolga tutto al peggio? Il mio cuore e il mio spirito si sono raccartocciati: non provo più il bisogno di espandermi, anzi mi è noiosa, come fatica inutile, ogni velleità di espansione.
Non amo scrivere; e mi riesce difficile, perché non ho né facilità né correttezza né lucidità di espressione. Quello che cinque o sei anni fa fu la seconda giovinezza ora è sfiorita, sfiorita per sempre. Allora mi era facilissimo consolarmi e rinnovarmi nella poesia che mi risplendeva e risonava da ogni cosa, e dopo la poesia, gli studi geniali, e poi, la politica e la lotta; e poi l’amore; dopo lottato e scritto tutto il giorno mi era un riposo l’abbandonarmi a te con lettere di otto pagine, nelle quali la fantasia e il sentimento confondevano i loro gettiti più strani.
Ora no. Aborro la politica, rifuggo dalla lotta, gli studi fecondi; sono stanco e annoiato della poesia, dell’Italia, della libertà; non so più scrivere; la penna mi pesa e mi fa male peggio che un remo da galera. Vorrei poter dire al cielo e alla terra: lasciatemi posare e dormire; tanto è inutile; io sono un tronco arido. Perché devo affaticarmi? perché pensare? perché amare? Io non ho più voglia di nulla, se non forse di oblio.
Chi vuol lavorare per la patria, per l’arte, per la gloria, per il bene si serva pure. Io non mi sento capace di tanto; so che fra dieci anni rimarrà orma di quel molto che ho pensato, studiato, amato, combattuto nella mia gioventù, so che ho scroccato una nomea effimera con sforzi facchineschi; so che sono imbecille e cattivo, e che ho avuto più fortuna che non meritassi.
Dimenticatemi dunque, e lasciate che dimentichi. Non invidiatemi la mia solitudine. Questo in generale. A te poi in particolare, dico: è inutile tu ti affanni per l’amore d’una volta; non ho più energia: se mi vuoi quale sono, prendimi: se no, lasciami: perché amareggiare e mortificare me coi rimpianti continui? Può darsi che questa atonia dolorosa cessi: per ora nessuna forza può scuoterla. Forse sarà stata la solitudine e il turbinoso e fisso rivolgersi del pensiero sempre in se stesso e intorno a se stesso che mi avrà ridotto cosi; ma ora sono cosi. Non vedi, non senti, che né meno so più esprimermi? non ti accorgi della fatica che mi ci vuole per affacciarmi solamente un poco fuori di me?
Dunque compatiscimi e non rimproverarmi. Quanto a’ desideri tuoi: 1) Della gita o ad Arquà od altrove mi spiace non poter farne nulla: mi manca il tempo, che devo dare ai molti doveri che non ho adempiuto finora a punto per questa atonia che mi rende impossibile il far nulla altro che ordinare rime antiche; e mi manca anche il denaro; 2) Dell’impetrare da Cairoli altra destinazione, per chi tu sai, pensa bene di non incolparmene, perché non avresti ragione. Anzi tutti, a nome di chi mi devo fare avanti? Se quella persona non mostra desiderio di essere destinato altrove, se non si fa vivo; io che ci entro? Al tempo di Luigi XV e anche dei nostri consorti poteva essere naturale che uno fosse mandato qui anziché là perché cosi piaceva all’amante di sua moglie. Ma, oltre che io non ho autorità né influenza vera, io non muoverò un dito, se ciò che non paia utile al tuo amico.
Ti dico che non ho autorità; e te lo dimostro. La Siciliani, mi pregò e ripregò perché raccomandassi un patriota, rovinato per l’Italia, a Cairoli, a ciò s’interponesse con Seismit per fargli avere un posto nei dazi ecc. Dopo tre mesi, il segretario mi scrive, racchiudendomi la risposta del Doda al Cairoli. Cairoli non aveva fatto che mandare la mia lettera al collega. Questi se n’era lavato le mani dicendo che non v’era posto.
È inutile; io non so né pregare né farmi ascoltare. Come vuoi che riesca a far mutare destinazione a un generale? Mi vien da ridere. Pure se il tuo amico crede utile che io mi adoperi, mi adopererò più caldamente che io possa. E ora ti prego anche una volta. Non prenderti a male di tutto questo. Compassionami invece, e credimi: credimi che non affetto tutta questa atonia, che non mi fingo questa mala disposizione, per scusare con te il mio disamore o altro. Io son fatto così. Non posso simulare né meno per gentilezza ora sono bestia, bestia, bestia; fammi la grazia di lasciarmi esser bestia finché succede un’altra metamorfosi o io crepi. So che ti affliggo, e me ne dispiace; ma del resto non son reo d’altro verso di te.
Addio.
Scrivimi cara