I figli della libertà è un romanzo, terso e commovente di Marc Levy, pubblicato in Italia nel 2008, traduzione di Cinzia Poli. Con la fede assoluta nella purezza dei sentimenti che da sempre vive nella sua scrittura viene raccontato il senso universale di una storia d’amore che attraversa le generazioni, un omaggio al padre, che a Tolosa, nella primavera del 1943, insieme a un gruppo di giovani non ancora ventenni come lui (ebrei francesi, ma anche italiani, polacchi, spagnoli), entrò in clandestinità, prese le armi, organizzò attentati e sabotaggi, deciso a tutto pur di non subire passivamente l’occupazione tedesca e il collaborazionismo di Pétain.
“Dirai ai tuoi figli di raccontare la nostra storia, nel loro mondo libero. Gli parlerai della nostra lotta. Gli insegnerai che su questa terra niente conta più di quella puttana della libertà, sempre pronta a vendersi al migliore offerente. Perché quella cagna ama l’amore degli uomini e fuggirà sempre quelli che vogliono incatenarla, e regalerà la vittoria a chi la rispetta senza pretendere di farla sua.”
Non hanno ancora vent’anni. Si chiamano Claude, Charles, Boris, Damira, Marius, Rosine, Jeannot. Sono spagnoli, polacchi, italiani, rumeni. Hanno la pancia vuota e la testa piena dei sogni e delle inquietudini dell’adolescenza. Nella Francia occupata della Seconda guerra mondiale vivono nell’ombra e nella paura, esuli, orfani e perseguitati in un mondo caduto preda della barbarie e della violenza. Sono i ragazzi della 35ª brigata, i figli della libertà. Questa è la loro storia, la Storia di tutti noi. È fatta del loro coraggio e della loro incoscienza, dei loro amori e delle loro avventure, della loro fame di futuro e giustizia. E del sacrificio di quanti hanno saputo sfidare la morte per affermare il diritto di ognuno a esistere e amare.
Un romanzo intenso, commovente, coinvolgente, avventuroso ed a volte divertente, una storia di coraggio e sopravvivenza scritto con una semplicità che non è ingenuità, perché questi ragazzini che vengono troppo presto gettati in una realtà adulta, bambini che sognano e combatto per la libertà, che vivono da uomini. Resta la voglia di essere migliori, di riscoprire i valori veri, di profonda riconoscenza per chi ha speso la propria vita per regalarci la libertà.
Ti amerò domani, oggi non ti conosco ancora. Per prima cosa ho sceso le scale del vecchio edificio in cui abitavo, con passo un po’ affrettato, te lo confesso. Al pianterreno, la mano con cui avevo stretto la ringhiera profumava della cera d’api che la portinaia passava scrupolosamente il lunedì fino alla svolta del secondo pianerottolo, il giovedì da lì agli ultimi piani. Nonostante la luce dorata che illuminava le facciate, il marciapiede conservava le ombre lasciate dalla pioggia del primo mattino. E dire che io, muovendo quei passi leggeri, non sapevo ancora niente, ignoravo tutto di te, di te che un giorno mi avresti fatto il più bel regalo che la vita possa offrire a un uomo.
Sono entrato nel piccolo caffè di Rue Saint-Paul, con le tasche piene di tempo. Un privilegio che quel giorno di primavera condividevo con pochi altri: al bancone eravamo soltanto in tre. Poi, l’impermeabile al braccio, è arrivato mio padre, che ha appoggiato i gomiti al banco come se non mi avesse visto, con un’eleganza tutta sua. Ha ordinato un caffè ristretto e mi sono accorto del sorriso che cercava di nascondermi, senza riuscirci. Tamburellando sul ripiano mi ha fatto capire che la sala era «tranquilla» e che finalmente potevo avvicinarmi. Nello sfiorargli la giacca ho avvertito la sua forza, il peso della tristezza che gli schiacciava le spalle. Mi ha chiesto se ero «sempre sicuro». Non ero sicuro di niente, ma ho annuito. Allora, con fare discreto, ha spostato la tazzina. Sotto il piattino c’era una banconota da cinquanta franchi. Ho rifiutato, ma lui stringendo risoluto la mascella ha borbottato che non si può combattere a stomaco vuoto. Ho preso la banconota e dal suo sguardo ho capito che per me era giunto il momento di andare. Mi sono sistemato il berretto, ho aperto la porta del caffè e mi sono incamminato.Passando accanto alla vetrina ho osservato mio padre dentro il bar, un fugace sguardo rubato, niente più; lui mi ha regalato l’ultimo sorriso per farmi cenno che il mio colletto era fuori posto.
Aveva negli occhi un’urgenza che avrei impiegato anni a comprendere, ma ancora oggi mi basta fermarmi un istante e pensare a lui, perché mi appaia intatta la sua ultima espressione. So che mio padre era rattristato dalla mia partenza, e immagino anche presagisse che non ci saremmo mai più rivisti. Non si era figurato la sua morte, ma la mia.
Ripenso a quegli istanti al Café des Tourneurs. Ne deve avere di coraggio un uomo per seppellire suo figlio mentre beve insieme a lui un caffè di cicoria, per starsene zitto invece di dire: «Fila subito a casa a fare i compiti!».
Un anno prima mia madre era andata al commissariato a ritirare le nostre stelle gialle. Per noi era stato il segnale che era giunto il momento dell’esodo, e infatti partimmo per Tolosa. Mio padre era sarto, e mai e poi mai avrebbe accettato di cucire quella porcheria su un pezzo di stoffa.Quel 21 marzo 1943 ho diciotto anni e salgo sul tram per raggiungere una destinazione che nessuna cartina riporta: entro a far parte della Resistenza.
Fino a dieci minuti prima mi chiamavo Raymond, ma da quando sono sceso al capolinea del numero 12 mi chiamo Jeannot. Jeannot e basta. In questo momento ancora dolce della giornata, tante persone che sono parte del mio mondo non sanno cosa le aspetta. Papà e mamma ignorano che sul loro braccio presto verrà tatuato un numero, mamma non sa che sul marciapiede di una stazione la separeranno da quell’uomo che lei ama quasi più di noi.
E io non so che tra dieci anni, in un cumulo di occhiali alto quasi cinque metri, al Memoriale di Auschwitz, riconoscerò la montatura che mio padre aveva riposto nel taschino della giacca l’ultima volta che lo vidi al Café des Tourneurs. Mio fratello minore Claude non sa che tra poco passerò a prenderlo e che, se non mi avesse seguito, se non avessimo attraversato insieme quegli anni, nessuno dei due sarebbe sopravvissuto. I miei sette compagni, Jacques, Boris, Rosine, Ernest, François, Marius, Enzo non sanno che moriranno urlando: «Viva la Francia!», quasi tutti con accento straniero.
I miei pensieri si confondono, le parole mi si affollano in testa, e a partire da questo lunedì a mezzogiorno, per due anni ininterrottamente, il cuore mi batterà in petto al ritmo dettato dalla paura. Per due anni ho avuto paura e tuttora la notte mi capita di svegliarmi con questa maledetta sensazione. Ma tu, amore mio, dormi al mio fianco, anche se non lo so ancora. Ecco quindi un frammento della storia di Charles, Claude, Alonso, Catherine, Sophie, Rosine, Marc, Émile, Robert, i miei compagni, spagnoli, italiani, polacchi, ungheresi, rumeni, i figli della libertà.