Il Piano Infinito è un romanzo della scrittrice cilena Isabel Allende, scritto nel 1991. Affronta i sentimenti dell’emarginazione sociale e del razzismo, la politica, i contrasti tra opulenza e miseria, l’evoluzione del concetto di famiglia, l’incessante ricerca di amore e di equilibrio interiore.
“Il seguito lo conosci già, perché lo abbiamo vissuto assieme. La sera in cui ci siamo conosciuti mi chiedesti di raccontarti la mia vita. E’ lunga, ti ho avvertito. Non importa, ho molto tempo, hai detto, senza sapere in che pasticcio ti mettevi con questo piano infinito.”
Il protagonista, Gregory Reeves, è un gringo che incarna molti dei difetti e delle virtù della nostra società degli ultimi cinquant’anni. La vicenda si svolge in un arco di tempo che va dalla bomba su Hiroshima fino ai giorni nostri, passando attraverso le contestazioni del ’68 e la guerra in Vietnam. Il racconto di un’esistenza esige tempo e passione: questo lo spirito del romanzo.
Mentre la figura del gringo Gregory Reeves si staglia contro il vasto cielo della sua avventura umana, le vicende si intrecciano ai luoghi, i luoghi alla storia del mondo.
Gregory Reeves, un gringo di famiglia povera, con la sua famiglia nomade viaggia di villaggio in villaggio con il Piano Infinito, il carro del padre, Charles Reeves, Dottore in Scienze Divine; sono presenti anche la madre, Nora Reeves, la sorella Judy, e Olga, guaritrice e chiromante. Il padre andava predicando il Disegno Maggiore di cui lui era a conoscenza, infondendo negli animi delle persone speranza e serenità. Tuttavia, un giorno sono costretti a costruirsi una casa…
“Adesso che ho superato già tanti dolori e posso leggere il mio destino come una mappa piena di errori, quando non sento nessuna compassione di me stesso e posso passare in rassegna la mia esistenza senza sentimentalismi, perché ho trovato una relativa pace, lamento solo la perdita dell’innocenza.
Mi manca l’idealismo della gioventù, del tempo in cui esisteva ancora per me una chiara linea divisoria tra il bene e il male e credevo che fosse possibile agire sempre in accordo con principi amovibili.”
Il romanzo è scritto prevalentemente in terza persona singolare, anche se sono presenti narrazioni in prima persona, scritte dallo stesso Gordon. È un’opera ricca di avventura e passione, un teatro umano, sempre più arricchito da sapori nuovi e da una forte tensione epica, un romanzo che riesce a prendere tutto il mondo, non ha barriere né limiti.
Sono solo sulla sommità della montagna all’alba. Nella nebbia lattiginosa scorgo ai miei piedi i corpi degli amici, alcuni sono rotolati lungo il declivio come rossi fantocci smembrati, altri sono pallide statue sorprese dall’eternità della morte. Ombre misteriose si inerpicano verso di me. Silenzio. Aspetto. Si avvicinano. Sparo contro le oscure sagome in pigiami neri, fantasmi senza volto, sento il rinculo della mitragliatrice, la tensione arde le mie mani, incrociano l’aria le scie incandescenti delle vampe, ma non un solo suono. I nemici si sono fatti trasparenti, le pallottole li attraversano senza fermarli, continuano ad avanzare implacabilmente. Mi circondano… silenzio…
Il mio grido mi risveglia e continuo a gridare, gridare…Gregory Reeves.
Andavano per le vie dell’ovest senza fretta e senza meta precisa, mutando rotta secondo il capriccio di un istante, al segnale premonitore di uno stormo d’uccelli, alla tentazione di un nome ignoto. I Reeves interrompevano il loro erratico peregrinare ove li cogliesse la stanchezza o incontrassero qualcuno disposto ad acquistare la loro impalpabile mercanzia. Vendevano speranza. Così percorsero il deserto nell’una e nell’altra direzione, valicarono le montagne e una mattina videro apparire il giorno su una spiaggia del Pacifico. Più di quarant’anni dopo, nella lunga confessione in cui passò in rassegna la propria esistenza e tirò le somme dei suoi errori e successi, Gregory Reeves rievocò per me il suo ricordo più antico: un bimbo di quattro anni, lui stesso, che fa la pipì su una collina al tramonto, l’orizzonte tinto di rosso e ambra dagli ultimi raggi del sole, alle spalle le sommità dei monti e giù in basso una vasta piana dove il suo sguardo si perde. Il liquido caldo sgorga come un’essenza del suo corpo e del suo spirito, ogni goccia, immergendosi nella terra, marca il territorio con il suo segno. Il bimbo prolunga il piacere, gioca con lo zampillo, tracciando un cerchio color topazio nella polvere, assorbe l’intatta pace della sera, lo compenetra l’immensità del mondo con un sentimento di euforia, perché lui è parte di quel paesaggio nitido e colmo di meraviglie, incommensurabile geografia tutta da esplorare. A breve distanza la famiglia lo attende. Si sente bene, per la prima volta ha coscienza della felicità: è un momento che non dimenticherà mai. Lungo il corso della sua vita, Gregory Reeves provò in momenti diversi quella folgorazione davanti alle sorprese del mondo, quella sensazione di appartenere a un luogo splendido dove tutto è possibile e dove ogni cosa, dalla più sublime alla più orrenda, ha la propria ragione d’essere, nulla accade per caso, nulla è inutile, come predicava a gran voce suo padre, arso da fervore messianico, con un serpente acciambellato ai suoi piedi. E ogni volta che provava quella scintilla di consapevolezza, ricordava il tramonto sulla collina. La sua infanzia era stata un’epoca troppo lunga di confusione e penombra, tranne quegli anni di vagabondaggio con la famiglia.