Che cosa ti aspetti da me?, un romanzo scritto da Lorenzo Licalzi, pubblicato da Rizzoli nel 2005, genere narrativa.
“Che cosa ti aspetti da me?”
“Mi aspetto che tu non mi chieda che cosa mi aspetto da te.”
Può la vita svelarsi quando sembra arrivata al capolinea? Può l’amore manifestarsi nel momento in cui ceni alle cinque del pomeriggio e vai a dormire alle sette?
Questa è la storia di Tommaso Perez, brillante fisico nucleare, la sorprendente parabola della sua esistenza, dei suoi anni d’oro in compagnia dei più grandi scienziati del Novecento e dei suoi anni grigi confinato in una casa di riposo, inchiodato su una carrozzella. Ma la vita è così, ti porta in alto, ti fa credere di aver intuito l’assoluto, ti illude di aver compreso il senso delle cose, e poi ti risputa come un nocciolo di prugna. Tommaso Perez, in effetti, tutto ha creduto e sperato tranne di voltare pagina oltre i settanta, quando Elena, senza preavviso, entra nel suo mondo e a poco a poco lo rivoluziona.
“Passavo le notti a guardare le stelle, e non era affatto male. Oggi le passo a guardare una crepa sul soffitto, e forse è perfino meglio di come trascorro i miei giorni…”
E’ un romanzo cinico ed esilarante, ironico e commovente, capace di raccontare la realtà così com’è, in tutta la sua fragile, gloriosa e imprevedibile umanità.
Come nei romanzi precedenti, Lorenzo Licalzi non rinuncia a uno humour spesso feroce e a clamorosi rovesciamenti narrativi, ma dimostra una nuova capacità di scavare nei sentimenti e nella condizione umana, regalandoci personaggi che resteranno a lungo nella mente e nel cuore dei lettori.
Un inno alla vita in tutti i suoi momenti, anche in quelli in cui non ti aspetteresti più niente, consiglio di leggerlo.
Ora che sono vecchio, e stanco, e solo, se mi guardo indietro mi sembra che la mia vita sia la vita di un altro. Le persone che amavo non ci sono più.
Una dopo l’altra sono state inghiottite dagli anni. Mi restano solo i ricordi, ma non bastano. Sono ricordi vuoti che la memoria non riesce a ritrovare
con l’intensità di un tempo. Frammenti aridi, come anestetizzati da qualsiasi emozione tanto da sembrarmi anche quelli i ricordi di un altro. Non è la
memoria che ho perso ma la nostalgia del ricordare. L’ictus, che mi ha paralizzato un lato del corpo, non ha risparmiato la mente, non del tutto, almeno. Ancora ragiono bene, ma alle volte mi perdo, confondo i tempi, gli spazi, i gesti e le parole. Confondo i pensieri. E anche quando ritorno me stesso, non sono mai il me stesso che ero, ma quello che la vecchiaia mi ha concesso di essere, un uomo che vive i suoi giorni con grande distacco, non solo dagli altri, perfino da sé. Eppure, nei sotterranei della coscienza, l’essenza ultima della mia persona non è cambiata, è la stessa di quando avevo vent’anni o quattordici o nove, forse. Senza la purezza di quei tempi, d’accordo, senza fremiti o entusiasmi, addomesticata dalle vicissitudini della vita, annichilita dalla malattia, ma il mio essere più profondo, ora lo so, non è invecchiato. Io ho l’anima del bambino che ero e il corpo del vecchio che sono.