L’abbazia di Northanger è forse il romanzo meno conosciuto e meno di successo di Jane Austen, fu terminato nel 1803, ma fu pubblicato solo nel 1818, dopo la morte della scrittrice.
“Sarebbe umiliante per i sentimenti di molte signore, se fossero in grado di capire quanto poco il cuore di un uomo sia colpito da ciò che è nuovo o costoso nel loro abbigliamento; quanto poco si curi della trama di una mussolina, e come sia immune da particolari tenerezze nei confronti di quella a pois, con ricami floreali, leggera o pesante. Una donna è elegante solo per soddisfare se stessa. Nessun uomo l’ammirerà di più, a nessuna donna piacerà di più per questo. Un aspetto curato e alla moda bastano al primo, e qualcosa di trasandato o inappropriato è ciò che suscita più benevolenza nella seconda.”
Catherine Morland, la protagonista del romanzo, è invitata a trascorrere qualche giorno presso l’ex abbazia di Northanger, residenza della famiglia del giovane pastore anglicano con cui si è fidanzata, e che la crede una ricca ereditiera. Suggestionata dal luogo e ancor più dalle intense letture di romanzi dell’orrore all’epoca in gran voga, la giovane vive alterando banali eventi quotidiani alla luce di immaginarie atmosfere di terrore. Una serie di malintesi, frutto della sua fantasia sovreccitata, mette a repentaglio il rapporto sentimentale appena nato, pregiudicato anche dalla scoperta delle sue reali condizioni economiche.
Celebrazione dei riti di iniziazione sociale della borghesia inglese di provincia a cavallo tra Sette e Ottocento, quest’opera della Austen non si esaurisce nella storia di una contrastata passione, ma rappresenta una sottile parodia del romanzo sentimentale, e soprattutto del romanzo gotico, che resta di grande attualità ancora oggi.
L’abbazia di Northanger è una parodia ben riuscita del romanzo sentimentale e del romanzo gotico, così in voga allora, mescolata alla celebrazione dei riti di iniziazione sociale della borghesia inglese di provincia tra Sette e Ottocento.
La sua protagonista è un’anti-eroina, elevata paradossalmente al ruolo di eroina durante le sue piccole indagini all’interno dell’abbazia, ma è in realtà un personaggio ingenuo, semplice, distante dalle figure di donne cui la letteratura aveva abituato.
Nel libro viene molte volte citato I misteri di Udolpho di Ann Radcliffe, uno dei romanzi gotici più famosi in quegli anni.
Nessuno che avesse conosciuto Catherine Morland nella sua infanzia avrebbe mai immaginato che fosse nata per essere un’eroina. La sua condizione sociale, il carattere del padre e della madre, il suo aspetto e la sua indole, era tutto ugualmente contro di lei. Il padre era un ecclesiastico, né reietto né povero, e un uomo molto rispettabile – sebbene si chiamasse Richard – e non era mai stato bello. Aveva una considerevole indipendenza economica, oltre a due buoni benefici ecclesiastici, e non aveva nessuna tendenza a tenere le figlie segregate. La madre era una donna pratica e assennata, con un buon carattere, e, cosa ancora più degna di nota, con una buona costituzione. Aveva avuto tre figli maschi prima che nascesse Catherine, e invece di morire mettendo al mondo quest’ultima, come chiunque si sarebbe aspettato, continuò a vivere; a vivere tanto da avere altri sei figli, vederseli crescere intorno e godere lei stessa di ottima salute. Una famiglia con dieci figli sarà sempre chiamata una bella famiglia, purché ci siano teste, braccia e gambe nella giusta proporzione; ma i Morland avevano poco altro per essere degni di quell’aggettivo, poiché erano in generale molto brutti, e Catherine, per molti anni della sua vita, brutta come tutti. Aveva una figura esile e goffa, una pelle giallastra e scolorita, capelli scuri e lisci e lineamenti marcati; questo come aspetto fisico; ma non meno sfavorevole all’eroismo sembrava la sua mente. Amava tutti i giochi da maschi, e preferiva di gran lunga il cricket non solo alle bambole, ma ai più eroici divertimenti dell’infanzia, come accudire un ghiro, nutrire un canarino, o annaffiare un roseto. In effetti non aveva nessuna inclinazione al giardinaggio, e se le capitava di cogliere qualche fiore, era principalmente per disobbedire, almeno così si poteva ipotizzare dal fatto che scegliesse sempre quelli che le era proibito prendere. Tali erano le sue inclinazioni; le sue qualità erano altrettanto inusuali. Non riusciva a imparare o a capire alcunché prima che le venisse insegnato, e a volte neanche dopo, poiché era spesso distratta e occasionalmente ottusa. La madre passò tre mesi solo per farle imparare a memoria “La preghiera del mendicante”, e dopo tutto quel tempo, la sorella minore, Sally, sapeva ripeterla meglio di lei. Non che Catherine fosse sempre ottusa, per niente; imparò la favola “La lepre e i suoi molti amici” rapidamente quanto ogni altra ragazza in Inghilterra. La madre voleva che imparasse a suonare, e Catherine era sicura che le sarebbe piaciuto, perché amava molto il tintinnio dei tasti della vecchia e malandata spinetta; così, a otto anni cominciò. Studiò per un anno, e non riuscì a sopportarlo; allora Mrs. Morland, che non insisteva mai con l’istruzione delle figlie se vedeva incapacità e avversione, le permise di lasciar perdere. Il giorno in cui fu congedato il maestro di musica fu uno dei felici della vita di Catherine. La sua inclinazione per il disegno non era maggiore, anche se, ogni volta che riusciva a ottenere dalla madre l’avanzo di una lettera, o a procurarsi un qualsiasi altro pezzo scompagnato di carta, faceva quello che poteva, disegnando case e alberi, polli e galline, tutti molto simili l’uno all’altro. A scrivere e a far di conto glielo insegnava il padre, il francese la madre; il profitto in entrambi non ero certo notevole, e lei schivava le lezioni di entrambi ogni volta che poteva. Che strano e inspiegabile personaggio! perché, con tutti questi sintomi di sregolatezza, a dieci anni non era né cattiva di cuore né cattiva di carattere; di rado era testarda, quasi mai litigiosa, ed era molto buona con i più piccoli, con qualche intervallo di tirannia; oltre a ciò, era rumorosa e scatenata, odiava stare rinchiusa e lavarsi, e al mondo non c’era nulla che le piacesse quanto rotolarsi nel pendio erboso dietro la casa.
Tale era Catherine Morland a dieci anni. A quindici, l’aspetto era in via di trasformazione; cominciò ad arricciarsi i capelli e a spasimare per i balli; la carnagione migliorò, i lineamenti si ammorbidirono, quando ingrassò un po’ e si fece più colorita, gli occhi acquistarono più vivacità, e la figura più rilievo. L’amore per la sporcizia lasciò il posto all’inclinazione per i bei vestiti, e divenne pulita diventando elegante; ora aveva talvolta il piacere di sentire i commenti del padre e della madre sul suo miglioramento fisico. “Catherine sta diventando proprio una bella ragazza, oggi è quasi graziosa”, erano le parole che ditanto in tanto le giungevano all’orecchio; e quanto erano graditi quei suoni! Apparire quasi graziosa, è un complimento che dà molta più gioia a una ragazza che era stata brutta per i primi quindici anni della sua vita, rispetto a qualunque altro possa ricevere chi è stata bella fin dalla culla.
Consiglio la traduzione di Giuseppe Ierolli, disponibile in ebook (formato PDF), oppure in formato cartaceo che trovare nel link sotto:
http://www.jausten.it/jarcna.html
Nel 1986 la BBC ha prodotto una miniserie, ma non ha avuto grande successo.
Nonostante alcune licenze, il film risulta rispettoso del libro e godibile. Come non innamorarsi di Henry Tilney praticamente perfetto.
Nel 2007 è stato prodotto un film diretto da Jon Jones con Geraldine James, Michael Judd e Julia Dearden.