Chocolat è un romanzo della scrittrice britannica Joanne Harris, pubblicato da Garzanti nel 1999, tradotto da Laura Grandi. Un libro originale, magico, godurioso e peccaminoso. Vianne Rocher sa gustare i piaceri dell’esistenza, ma soprattutto sa farli apprezzare agli altri.
Primo di una trilogia, è seguito da “Le scarpe rosse” e il terzo capitolo Il giardino delle pesche e delle rose.
“Il cibo degli dei, che spumeggia e ribolle nel vasellame da cerimonia. L’amaro elisir della vita.”
Trama di “Chocolat”
E’ martedì grasso quando nel villaggio di Lansquenet,un paesino della provincia francese, popolato soprattutto da anziani, arrivano Vianne Rocher e la sua giovane figlia Anouk.
La donna è assai simpatica e originale, sexy e misteriosa, forse è l’emissaria di potenze superiori (o magari inferiori), sa gustare i piaceri dell’esistenza, e soprattutto sa farli apprezzare agli altri. La Céleste Praline, la sua pasticceria, ben presto diviene un elemento di disordine, soprattutto per il giovane curato Francis Reynaud. Arriva un vento di euforia che spazzerà via sensi di colpa e di disagio, il tranquillo villaggio diventa più disordinato, ribelle e soprattutto felice.
Lo scontro tra Benpensanti e Golosi, tra le delizie terrestri offerte da Vianne e quelle celesti promesse da padre Reynaud, tra Carnevale e Quaresima, diventa inevitabile.
“Il vento di marzo è un vento malato, diceva sempre mia madre. Eppure è piacevole, odora di linfa e ozono e del sale di mari lontani. Un buon mese, marzo, con febbraio che vola via dalla porta sul retro e la primavera che aspetta a quella principale. Un buon mese per un cambiamento.”
Recensione
Inizio col dire che mi è piaciuto molto, anche se la scrittura non è molto scorrevole, l’autrice riesce a trasmettere profumi, sapori e umori di questo piccolo villaggio francese vecchio stile, mescolando l’atmosfera surreale e magica a temi fortemente reali e concreti, come la religione e ci mette davanti alle paure ed ai segreti che ognuno di noi si porta dentro. E’ un libro che lavora su numerosi livelli, ricco di simbolismi.
Devo ammettere, però, che è uno dei pochi casi in cui ho amato di molto la trasposizione cinematografica, l’ho trovata più fluente e leggera, anche se con qualche personaggio in meno e qualcuno in più, le atmosfere della cioccolateria di Vianne Rocher e la giocosità di Anouk e Pantouffle restano inalterati.
La parte iniziale è molto simile al film, ma poi si discosta divenendo più oscuro. Mentre una differenza sostanziale è la rappresentazione dell’antagonista della storia, nel film è un sindaco, nel libro è un prete, enfatizzando l’opposizione tra una chiesa chiusa, rigida e triste e una Vianne libera, colorata e felice, un contrasto che domina per l’intero romanzo.
La lentezza che a volte accompagna la lettura sembra che si muova con i personaggi, il ritmo segue la prospettiva del racconto, quella di Vianne è ricca, mentre quella del prede segue le sue tristi lamentele. Come ho detto prima, il libro è ricco di simbolismi, come la paura di Vianne di perdere la figlia, che potrebbe rappresentare la paura che la figlia possa perdere quella magia che spesso solo i bambini hanno. Oppure la differenza nel descrivere il prete all’inizio del libro, un pomposo esaltato che si batte il petto, ma innocuo, fino a progredire gradualmente verso un lato psicotico che porta alla violenza.
Anche se è noto che l’autrice non ha un buon rapporto con la religione, soprattutto quella cristiana, non credo che qui venga fatta di tutta l’erba un fascio, ma che venga puntata la luce sui fanatismi, sull’intolleranza e la paura del diverso.
Nel mondo di Vianne sono i singoli uomini che contano, ognuno può arricchire o togliere, come gli ingredienti delle ricette che inventa per esaltare il cioccolato e donarlo ai variegati gusti del mondo.
Incipit di “Chocolat”
11 FEBBRAIO
MARTEDÍ GRASSOSiamo arrivate con il vento del carnevale. Un vento tiepido per febbraio, carico degli odori caldi delle frittelle sfrigolanti, delle salsicce e delle cialde friabili e dolci cotte alla piastra proprio sul bordo della strada, con i coriandoli che scivolano simili a nevischio da colletti e polsini e finiscono sul marciapiedi come inutile antidoto contro l’inverno. C’è un’eccitazione febbrile nella folla disposta lungo la stretta via principale, i colli che si allungano per vedere il carro fasciato di carta crespata, con i suoi nastri svolazzanti e le coccarde di cartoncino.
Anouk guarda, gli occhi spalancati, un palloncino giallo in una mano e una trombetta nell’altra, tra un cesto per la spesa e un triste cane marrone. Abbiamo visto altri carnevali, io e lei: una processione di duecentocinquanta carri decorati a Parigi, il martedì grasso dell’anno scorso, centottanta carri a New York, due dozzine di bande che marciavano a Vienna, clown sui trampoli, le Grosses Têtes con le loro teste ciondolanti di cartapesta, le majorettes con i bastoni che roteano e sfavillano. Ma a sei anni il mondo ha ancora una luce speciale. Un carro di legno, decorato alla buona con oro, crespo e scene dalle favole. Una testa di drago su uno scudo, Raperonzolo con una parrucca di lana, una sirenetta con la coda di cellophane, una casetta di pan di zenzero, tutta glassa e cartone dorato, una strega sulla porta che sventola le stravaganti unghie verdi di fronte a un gruppo di bambini silenziosi… A sei anni si possono scorgere dei particolari che già un anno dopo vanno al di là delle nostre capacità. Dietro la cartapesta, la glassa, la plastica, lei riesce ancora a vedere la vera strega, la vera magia. Alza lo sguardo verso di me, gli occhi sono brillanti, dello stesso azzurro-verde della Terra vista dallo spazio.
«Ci fermiamo? Ci fermiamo qui?». Devo ricordarle di parlare francese. «Allora? Ci fermiamo?». Mi si aggrappa alla manica. I suoi capelli sono un groviglio di zucchero filato nel vento.
Ci penso. È un posto come un altro. Lansquenet-sous-Tannes, al massimo duecento anime, non più di un puntino sulla superstrada tra Toulouse e Bordeaux. Sbatti le palpebre ed è già passato. Una strada principale, una doppia fila di case dai colori spenti e dal tetto spiovente che si appoggiano una all’altra come a serbare un segreto, poche traverse che corrono parallele come i rebbi di una forchetta piegata. Una chiesa, intonacata di un bianco aggressivo, in una piazza di negozietti. Fattorie sparse in una landa guardinga. Frutteti, vigneti, strisce di terra cintate e schierate secondo la rigorosa discriminazione dell’agricoltura: qui mele, là kiwi, meloni, indivie sotto gli involucri di plastica nera, vigne apparentemente appassite e morte nel debole sole di febbraio, ma in attesa della trionfale resurrezione di marzo… Là dietro scorre la Tannes, piccolo affluente della Garonne, che si fa strada tra pascoli paludosi.
E la gente? Assomiglia molto a tutta quella che abbiamo conosciuto: un po’ pallida forse, nell’insolita luce solare, un po’ trasandata. I foulard e i berretti sono dello stesso colore dei capelli che ricoprono: marroni, neri o grigi. I volti sono segnati come le mele dell’estate scorsa, gli occhi infossati nella pelle rugosa come bilie in un vecchio impasto. Alcuni bambini, bandiere spiegate rosse, verde limone e gialle, sembrano di un’altra razza. Mentre il carro avanza pesantemente lungo la strada trainato dal vecchio trattore, una donna robusta con il volto quadrato e malinconico si stringe sulle spalle un cappotto scozzese e urla qualcosa nel semincomprensibile dialetto locale; sul carro, un Babbo Natale un po’ tozzo, fuori posto tra fate, sirene e gnomi, lancia caramelle alla folla con malcelata aggressività. Un uomo anziano dai tratti sottili che indossa un cappello di feltro al posto del berretto rotondo tipico di questa regione, solleva con un educato sguardo di scusa il triste cane marrone che sta fra le mie gambe. Vedo le sue dita sottili e aggraziate muoversi nel pelo del cane; il cane uggiola; l’espressione del padrone racchiude allo stesso tempo amore, preoccupazione, senso di colpa. Nessuno ci guarda. Potremmo anche essere invisibili; i nostri vestiti rivelano che siamo straniere, di passaggio. Sono educati, davvero ben educati; nessuno ci fissa. La donna, i lunghi capelli infilati nel colletto del cappotto arancio, una lunga sciarpa di seta che svolazza al collo; la bambina con gli stivali di gomma gialli e un impermeabile azzurro-cielo. I loro colori le marchiano. I loro colori sono esotici, i loro volti – ma sono troppo pallidi o troppo scuri? -, i loro capelli le marchiano come altre, straniere, diverse in modo indefinibile. Gli abitanti di Lansquenet hanno imparato l’arte di osservare senza incrociare i tuoi occhi. Sento il loro sguardo come un respiro sulla nuca, stranamente privo di ostilità, e tuttavia freddo. Per loro siamo una curiosità, parte del carnevale, una ventata che viene da terre lontane. Sento i loro occhi su di noi mentre mi giro a comprare una galette dal venditore ambulante.
Nel 2002 è stato tratto un film, diretto dal regista Lasse Hallström con Juliette Binoche e Johnny Depp.
Il film ricevette cinque nomination agli Oscar 2001 come miglior film, migliore attrice Juliette Binoche, migliore attrice non protagonista Judi Dench, migliore sceneggiatura non originale e migliore colonna sonora originale Rachel Portman), ma non riuscì ad aggiudicarsi alcuna statuetta.
La parte iniziale è molto simile al libro, ma poi si discosta dal libro, quello che nel film è un sindaco nel libro è un prete, enfatizzando l’opposizione tra una chiesa chiusa, rigida e triste e una Vianne libera, colorata e felice.
Si racconta che la scrittrice si è dichiarata nauseata dal cioccolato a un anno dall’uscita del film poiché durante il tour promozionale non facevano altro che offrirgliene in tutte le sue forme.
1 commento
Preferisco cento volte di più il film