La scuola dei desideri è un romanzo giallo di Joanne Harris edito da Garzanti e pubblicato nel 2006. Sullo sfondo di un mondo chiuso ed elitario, popolato da personaggi spesso bizzarri e a volte inquietanti, si svolge una torbida vicenda di ossessioni e bugie, tradimenti e gelosie fino al colpo di scena finale.
“Ci vuole coraggio, a volte, per affrontare la verità. Vedere i nostri eroi, e i nostri cattivi, per quel che sono davvero. Vedere noi stessi come ci vedono gli altri.”
È l’inizio del nuovo anno scolastico a St. Oswald, esclusivo collegio maschile nel nord dell’Inghilterra, si respira aria di cambiamenti.
Nuove materie vengono introdotte e vecchie eliminate. Con l’avanzare delle nuove tecnologie e di un’esasperante burocrazia le vecchie tradizioni sembrano destinate a soccombere. E così, l’anziano professore di latino Robert Straitley, un tempo direttore degli Studi classici, vede il suo ruolo ridimensionato, schiacciato dallo strapotere delle Lingue moderne, dell’informatica e deve cedere terreno alle nuove leve, insegnanti con poca esperienza e scarsa conoscenza degli allievi. Ma l’inizio dell’anno scolastico porta con sé altri contrattempi, ben più minacciosi.
Tutto comincia con una serie di incidenti, dapprima insignificanti e quasi comici, poi sempre più gravi e inquietanti, tanto da mettere a rischio la sopravvivenza della scuola stessa.
Straitley è l’unico che appare in grado di contrastare questo crescendo di violenza, perché conosce St. Oswald e la sua storia, e anche quei segreti che affondano le radici in un passato oscuro, in una storia di passione e morte che in molti non hanno voluto vedere per salvare il buon nome dell’istituto. Ma adesso il passato ritorna, sulla scuola incombe un’atroce vendetta e sarà proprio Straitley a impedire la rovina di St. Oswald ingaggiando una personalissima partita contro chi vuole distruggere l’antica istituzione.
Acclamato dalla critica come uno dei migliori romanzi di Joanne Harris, che sorprende il lettore pagina dopo pagina ed è bravissima nel dipingere l’universo della scuola e i rapporti così importanti e così complessi tra i professori e i loro studenti.
“Il senno di poi è uno strumento ingannevole, che trasforma gli angeli in demoni, le tigri in clown. Nel corso degli anni le certezze del passato si sciolgono come neve al sole; nessun ricordo è al sicuro.”
Un libro che vale la pena leggere, non è particolarmente impegnativo, anche se come succede con i libri di quest’autrice all’inizio viene sempre voglia di abbandonarli, ma alla fine si è felici di non averlo fatto, ormai sappiamo bene che spesso si perde in meravigliose descrizioni. Mentre leggete penserete che questo libro è assurdo, ma niente è come sembra e la scrittrice riesce a manovrarci con la sua bravura fino alla fine, quando penserete che è un gran bel libro.
Se c’è una cosa che ho imparato negli ultimi quindici anni, è questa: che l’omicidio non è poi un granché. È solo un confine arbitrario come tutti gli altri, una linea tracciata nel terreno. Come il cartello gigante DIVIETO DI ACCESSO sul viale di St Oswald, che cavalcava l’aria simile a una sentinella.
All’epoca del nostro primo incontro avevo nove anni e già allora mi incombeva addosso, come la minaccia ringhiosa di un bullo della scuola.
DIVIETO DI ACCESSO
PROIBITO SUPERARE QUESTO PUNTO
SENZA AUTORIZZAZIONE
È UN ORDINE TASSATIVO
Altri bambini avrebbero potuto farsi intimidire dal comando. Ma nel mio caso la curiosità prevaleva sull’istinto. Per ordine di chi? Perché questo punto e non un altro? E, ancor più importante, cosa sarebbe successo se avessi oltrepassato quella linea?
Naturalmente sapevo già che la scuola era proibita. Allora vivevo nella sua ombra da sei mesi, e quel dogma appariva ormai esagerato tra i comandamenti della mia giovane vita, secondo quanto stabilito da John Snyde. Non fare la femminuccia. Fatti gli affari tuoi. Lavora sodo. Gioca pesante. Un goccetto non ha mai fatto male a nessuno. E soprattutto: Stai alla larga da St Oswald, sottolineato di tanto in tanto da un: Stai alla larga e basta, per il tuo bene o da un pugno d’ammonimento nella parte superiore del braccio. I pugni volevano essere affettuosi, lo sapevo. Però facevano male. Il ruolo di genitore non era fra quelli in cui John Snyde dava il meglio di sé.
Tuttavia, i primi mesi, obbedii senza problemi. Papà era estremamente fiero del suo nuovo lavoro di portiere: una vecchia scuola così raffinata, una tale reputazione, e avremmo abitato nella vecchia portineria, dove prima di noi erano vissute generazioni di portieri. Nelle sere d’estate avremmo preso il tè sul prato, e sarebbe stato l’inizio di qualcosa di meraviglioso. Forse, quando avesse visto come sapevamo cavarcela bene, la mamma sarebbe tornata a casa.
Ma le settimane passavano e non accadde nulla di simile. La portineria era un edificio dichiarato di interesse storico, con piccole finestre dai vetri
impiombati che lasciavano entrare poca luce. C’era un perenne odore di umido e non avevamo il permesso di mettere un’antenna parabolica perché avrebbe abbassato il livello. La maggior parte dei mobili apparteneva a St Oswald – pesanti sedie di quercia e credenze polverose – e le nostre cose, recuperate dal vecchio appartamento popolare di Abbey Road, apparivano dozzinali e fuori luogo. Mio padre dedicava tutto il tempo al nuovo lavoro e imparai in fretta a essere indipendente – a non avere pretese, per esempio pasti regolari o lenzuola pulite, classificate come tipiche di una femminuccia – a non disturbare mio padre nei fine settimana e a chiudere sempre a chiave la mia stanza il sabato sera.
La mamma non scriveva mai: anche solo citarla rientrava nelle cose da femminuccia e dopo un po’ cominciai a scordarmi che aspetto avesse. Però mio padre teneva una bottiglia del suo profumo nascosta sotto il materasso e, a volte, quando era fuori per i suoi giri d’ispezione, o giù all’Engineers, il pub, con gli amici, sgattaiolavo in camera sua per spruzzare una goccia di quel profumo – si chiamava Cinnabar – sul mio cuscino e facevo finta che la mamma stesse guardando la TV nella stanza accanto o che avesse appena fatto un salto in cucina per prendermi una tazza di latte e che sarebbe tornata per leggermi una storia. Una sciocchezza, in realtà: anche quando stava a casa, la mamma non aveva mai fatto queste cose. A un certo punto, papà fece sparire la bottiglia, e non riuscii più a ricordarmi quale odore avesse mia madre.
Si avvicinava Natale, portando con sé il brutto tempo e ancor più lavoro per il Portiere, così non potevamo mai prendere il tè sul prato. Ma di solito ero abbastanza felice. Una creatura solitaria già allora: un po’ goffa in compagnia, invisibile a scuola. Durante il primo trimestre rimasi per conto mio: me ne stavo fuori di casa, giocavo nei boschi innevati dietro a St Oswald ed esploravo il perimetro della scuola, badando a non superare mai la linea proibita.
Scoprii che St Oswald rimaneva quasi interamente nascosta: l’edificio principale da una lunga fila di tigli, ora spogli, che costeggiavano il viale d’ingresso, i terreni da muri e siepi che circondavano ogni lato. Ma attraverso i cancelli potevo vedere questi prati, tutti tagliati alla perfezione da mio padre, il campo di cricket con le siepi proporzionate, la cappella con il segnavento e le iscrizioni in latino. Al di là si spiegava un mondo tanto estraneo e distante ai miei occhi quanto Oz o Narnia, un mondo a cui non avrei mai potuto appartenere.