Il seme del male è il primo romanzo di Joanne Harris che risale al 1989, ma pubblicato in Italia il 22 ottobre 2009.
Romanzo gotico e bestseller assoluto in Inghilterra, racconta una storia di vampiri senza mai usare la parola vampiro, una storia di fantasmi senza un fantasma, una storia horror in cui la vita reale si rivela più inquietante di qualsiasi mitologia. Un romanzo ipnotico che trascina il lettore in un vortice sensuale di amicizia perduta e ossessioni, arte e follia, amore e tradimento.
“Qualcosa in me ricorda e non vuole dimenticare”
Cimitero di Grantchester, Cambridge. L’iscrizione è nascosta dai rami uniti di un albero di biancospino e di un tasso. È quello di una donna: Rosemary Virginia Ashley. Alice Farrell, giovane pittrice in cerca di ispirazione, non sa perché è finita davanti a questa lapide. Non conosce quella donna e non sa che cosa l’abbia portata qui, sa solo che la lapide la mette profondamente a disagio. Una sensazione strana, simile a quella che prova quando conosce Ginny, la nuova fidanzata del suo ex, Joe. Forse si tratta solo di gelosia. Eppure c’è qualcosa di oscuro in quella ragazza dalla bellezza eterea, con i capelli rossi e una passione per i quadri preraffaelliti che ritraggono donne uguali a lei. Cosa si nasconde dietro quegli occhi enigmatici e inquieti? E perché Ginny di notte fa visita alla tomba di Rosemary, seppellita cinquant’anni prima, ma lungi dall’essere dimenticata? Che relazione c’è tra le due donne? La risposta forse è in un vecchio diario. Ma ormai passato e presente sono una cosa sola e Alice deve riuscire a distinguere tra sogno e follia, bugia e finzione. Perché ora quella che era solo una sensazione sta per trasformarsi in un’orribile realtà. Una realtà di orrore e morte, sangue e vendetta, ossessione e tradimento, passioni oscure e amicizia perdute.
“Accade a volte che la gente venga condotta per caso dove dovrebbe trovarsi. Altre volte, gli eventi si toccano l’un l’altro come fili in un tessuto al telaio, un’immagine si sovrappone a un’altra, le annodature grossolane sul retro dell’arazzo sono legate in modo che l’eroina stinga sul cattivo, il mare e il cielo si fondano in una unione inquietante, i bordi netti si spezzino e diventino confini strani e inquietanti con il lato opposto.”
Una storia inquietante e attraente, oscura e misteriosa, magistralmente condotta dalla Harris, le vicende narrate si intrecciano e si compenetrano alla perfezione, all’inizio del libro non capivo la numerazione dei capitoli, bella idea quella di dare titoli uguali a seconda del piano temporale descritto.
Non è certo un capolavoro, sembra seguire la moda del momento i “vampiri”, anche se è stato scritto circa vent’anni fa, un po’ lentino in alcuni punti, ma con finale decisamente horror, penso che possa piacere a chi piace il genere.
Ecco del rosmarino, per il ricordo… Ti prego, amore, ricorda.
Amleto, IV.5Da bambino avevo molti giocattoli: i miei genitori erano ricchi e potevano permetterseli anche allora, immagino, ma quello di cui mi sono sempre ricordato era il treno. Non un treno meccanico, e nemmeno uno di quelli che puoi tirare, ma uno vero, che attraversava a grande velocità una campagna tutta sua, lasciandosi dietro un pennacchio di vapore bianco, e correva sempre più veloce verso una destinazione che pareva sempre sfuggirgli. Era una trottola, dipinta di rosso sulla metà inferiore e fatta di una specie di celluloide trasparente nella parte superiore, sotto a cui un intero mondo brillava e ruotava come un rubino di un orologio, piccole siepi e case e il bordo di un cerchio di cielo dipinto, così pulito e azzurro che quasi faceva male a guardarlo troppo a lungo. Ma la cosa migliore, quando si azionava la piccola maniglia («Fai sempre attenzione con quella maniglia, Danny, non fare girare troppo forte la trottola»), era che il treno giungeva in vista soffiando coraggiosamente, come un drago intrappolato sotto vetro e ridotto per magia a una dimensione minuscola; sulle prime arrivava adagio, poi sempre più di corsa finché case e alberi non si sfocavano nel nulla tutto attorno, il mugolio della trottola perso nel grido trionfante del fischio della locomotiva, come se il trenino cantasse per la gioia intensa di essere quasi lì.
Mamma, naturalmente, diceva che caricarlo troppo forte avrebbe potuto romperlo (e io facevo sempre attenzione, casomai fosse vero). Ma penso che credessi, perfino allora, che un giorno, se fossi stato sbadato, se avessi distolto l’attenzione anche per un solo momento, il treno avrebbe finalmente raggiunto la sua destinazione misteriosa, impossibile, come un serpente che si divora cominciando dalla coda. E sarebbe esploso, mostruoso, nel mondo reale, tutto fiammeggiante, l’acciaio che avrebbe sprizzato scintille nella quiete della stanza da gioco, e lui sarebbe venuto a prendermi, per vendicare la sua lunga prigionia. E forse una parte del mio piacere era sapere che lo avevo intrappolato, che non sarebbe mai fuggito perché io ero troppo attento e potevo guardarlo quando mi pareva. Il suo cielo, le sue siepi, la sua folle corsa attraverso il mondo erano tutti miei, perché li mettessi in moto quando mi piaceva, perché ero attento, perché ero intelligente. Ma forse no. Non mi ricordo di essere stato un bambino fantasioso. Di certo non ero morboso. È stata Rosemary a farmi questo, a farlo a tutti noi, suppongo. Ci ha resi di nuovo tutti bambini, incombente su di noi come la strega cattiva nella casetta di pan di zenzero, noi stessi omini di pan di zenzero a correre in tondo, trenini sotto la celluloide mentre lei guardava e sorrideva e azionava la maniglia per mettere in moto le sue ruote.
La mia mente sta divagando: un cattivo segno, come le rughe che ho intorno agli occhi e la chierica sulla testa. Di nuovo, opera di Rosemary. Quando il prete disse: «Polvere alla polvere», sollevai lo sguardo e pensai di vederla di nuovo, solo per un attimo, appoggiata all’albero di biancospino con un sorriso negli occhi. Se mi avesse guardato, penso che avrei urlato. Invece guardò Robert.
Robert era bianco, la faccia incavata e tormentata sotto il cappello, ma non perché l’avesse vista. Fui l’unico a vederla, e solo per un attimo: un cambiamento nella luce, un movimento e probabilmente l’avrei mancata. Ma non fu così. La vidi. Ed è per questo, più di qualsiasi cosa, che vi sto scrivendo adesso, a voi, al mio futuro oltre la tomba, per dirvi di me stesso, e di Robert e Rosemary… sì, Rosemary. Perché, vedete, lei ricorda ancora. Rosemary ricorda.