Tutti gli dei dell’Olimpo hanno la loro storia d’amore, tutti tranne uno, Ade (Plutone), guardiano del regno dei morti che vive sotto terra, circondato da persone non proprio vitali. Ade vive emarginato, veste sempre di nero (perché il lavoro che fa impone un certo tipo di abbigliamento), ha un colorito un po’ pallido, sguardo severo e triste. Ha tutte le ragioni per essere arrabbiato perché mentre gli altri dei se la spassano in festeggiamenti, lui deve fare i conti con la sua solitudine e l’unico amico che ha è Cerbero, il famoso cane con tre teste dal risaputo carattere non proprio socievole.
Ogni tanto con il suo carro sale in superficie e spia la vita sulla terra desideroso di farne parte. Ma non può, il suo compito è quello di sorvegliare le anime dei defunti. Che prospettiva meravigliosa, che poi essendo un dio, il suo incarico è eterno.
Un giorno però vede una fanciulla, Persefone (Proserpina) e il suo cuore, abituato alla solitudine e avaro di amore, viene colpito. Per questo incontro d’amore Ovidio sceglie un posto meraviglioso in cui è sempre primavera, i rami danno fresco e la terra produce fiori. E’ la Sicilia Il locus amoenus da lui descritto, esattamente un bosco nei pressi di Enna in cui la bella e ignara ragazza è solita raccogliere viole e gigli.
C’è però un problema, anzi forse più di uno:
1)La ragazza in questione è sua nipote (la figlia di sua sorella Demetra, per i romani Cerere).
2) Ade non è proprio di bell’aspetto e non sembra una persona rassicurante.
3)E’ il dio dei morti e come tale deve trascorrere il suo tempo negli inferi.
Qualsiasi ragazza rifiuterebbe le avances da un tipo così, Ade quindi decide di rapirla e di portarla con sé.
Succede il finimondo: Proserpina grida aiuto, sua madre Demetra (Cerere), dea della natura, rivuole la figlia e minaccia di non far crescere più nulla sulla terra, Zeus (Giove) (fratello di entrambi e padre della fanciulla) cerca un compromesso. Viene deciso che la ragazza stia 6 mesi sulla terra e 6 mesi con Ade. La pura e leggiadra Proserpina è costretta a stare con un uomo che non ama, anche se col passare del tempo divenne gelosa del marito e fece a pezzi le sue rivali in amore.
Morale della storia: L’amore è forte come la morte, la gelosia dura come l’inferno. (Cantico dei cantici)
Ade e Persefone di Monia Cannistraci
Nascita dell’inverno: Demetra, amareggiata per la figlia, decretò che nei sei mesi che Persefone avrebbe trascorso nel regno dei morti, sulla terra la natura si sarebbe addormentata sotto la coltre del freddo dando origine dapprima, all’autunno e, successivamente, all’inverno.
Ovidio, dalla Metamorfosi V, 341-461
«Per prima Cerere smosse le zolle con l’aratro adunco,
per prima diede al mondo grano e soavi alimenti,
per prima fondò le leggi: tutto è dono di Cerere.
È lei che devo cantare, e vorrei poter cantare
in modo degno della dea. Certo la dea è degna del canto2
C’è una grande isola, la Sicilia, che sta sopra il corpo
di un gigante, e preme con la sua mole Tifeo,
che aveva osato sperare le case celesti.
È vero che spesso si sforza e lotta per riemergere,
ma la sua mano destra è sotto il Peloro, presso l’Italia,
la sinistra sotto il Pachino, le gambe sono premute
dal Lilibeo e l’Etna gli grava sul capo.
Dal fondo, supino,
getta sabbia e vomita fuoco dalla bocca.
Spesso si sforza di muovere il peso della terra, di scuotere
dal corpo le città e i grandi monti
ne trema la terra, e anche il re dei morti silenziosi ha paura
che il suolo si apra e si scopra in una larga voragine,
e il giorno entrando sconvolga le ombre tremanti.
Temendo questo disastro, il tiranno era uscito
dalla sua casa buia e, su un carro tirato da cavalli neri,
girava saggiando i fondamenti della terra sicula
Quand’ebbe accertato che nessun luogo tremava,
e depose il timore, lo vide vagare la dea
dell’Erice, che stava sulla sua montagna, e abbracciò il figlio alato
“Figlio mio, disse, armi mie, mani mie, mia potenza,
prendi le mie frecce, con cui vinci tutti,
e scaglia una freccia veloce sul petto del dio
che ha avuto l’ultima scelta fra i tre regni.
Tu vinci e domi gli dei celesti, e lo stesso Giove,
gli dei del mare, e il dio che regna sugli dei del mare.
Perché il Tartaro si sottrae? Perché non estendi
il regno tuo e di tua madre? È un terzo del cosmo!
Invece nel cielo, per essere troppo tollerante, io sono
disprezzata, e con me è sminuito il potere di Amore.
Non vedi che Pallade e Diana l’arciera si tengono
in disparte? Anche la figlia di Cerere resterà vergine,
se lasciamo fare: lei nutre le stesse speranze.
Ma tu, per il nostro comune impero, se te ne dai cura,
unisci la dea allo zio.
Così disse Venere, e Amore
aprì la faretra e, ubbidendo alla madre, scelse
una di mille frecce, di cui nessuna è più acuta
o infallibile, o più sensibile all’arco;
curvò sul ginocchio l’arco flessibile
e con la freccia uncinata colpì Dite al cuore.
C’è un lago vicino alle mura di Enna,
profondo, che si chiama Pergo, e neppure il Caistro
ascolta sulle sue onde più canti di cigni.
Un grande bosco corona le acque da tutti i lati,
e con le sue fronde fa velo al fuoco del sole.
I rami danno fresco, la terra umida produce fiori:
è un’eterna primavera. In questo bosco Proserpina
mentre gioca a raccogliere viole e candidi gigli,
e ne riempie con zelo fanciullesco le ceste e il seno,
in ciò cerca di superare le sue compagne,
fu subito vista e amata e rapita
da Dite, tanto irruppe a precipizio l’amore. La dea atterrita
chiama con voce triste le compagne e la madre, ma più la madre.
Si lacerò la veste all’orlo di sopra,
e dalla veste allentata caddero i fiori raccolti;
e tanto candore c’era nei suoi giovani anni
che anche questa perdita causò dolore alla vergine.
Il rapitore lanciò il carro, esortando i cavalli
e chiamandoli uno ad uno per nome e, scuotendo
sul collo e sulla criniera le redini color di ruggine,
oltrepassò i laghi profondi e gli stagni dei Palici,
odoranti di zolfo che prorompe ardente dal suolo,
e dove i Bacchiadi, nati a Corinto sul doppio mare,
fondarono la città tra due porti dissimili.
Là, tra la Ciane e l’Aretusa, c’è un tratto
di mare racchiuso tra due anguste lingue di terra:
qui stava quella da cui lo stagno prese il suo nome
Ciane, famosissima tra le ninfe sicule:
uscì dai gorghi fino alla vita e riconobbe
la dea. “Non andrete più oltre”, disse,
“non puoi essere genero di Cerere contro il suo volere;
dovevi chiederla e non rapirla. Se posso paragonare
il piccolo al grande, anch’io fui amata da Anapi,
ma l’ho sposato per sua richiesta e non, come lei, per paura”.
Così disse, e tendendo le braccia dalle due parti,
cercò di fermarli. Ma Ade non trattenne più la sua collera:
incitò i tremendi cavalli e col suo forte braccio
gettò lo scettro regale in fondo alle acque.
La terra percossa aprì la via verso il Tartaro
e ingoiò giù nella voragine il carro. Ma Ciane,
triste per la dea rapita e i diritti violati
della sua fonte, portò in silenzio dentro di sé una ferita
inconsolabile, e tutta si sciolse in lacrime,
sparendo nelle acque di cui era stata il nume.
Si poteva vedere le sue membra afflosciarsi,
le ossa piegarsi, le unghie perdere consistenza; per prime
si liquefecero le parti più sottili del corpo,
i capelli azzurri, le dita, le gambe e i piedi:
per le membra sottili è rapida la transizione
al liquido; dopo, le spalle, la schiena e i fianchi,
il petto se ne vanno svanendo in esili rivoli;
infine l’acqua prese il posto del sangue nelle vene disfatte,
e non restò più nulla che si potesse afferrare.
Intanto la madre terrorizzata cercava invano la figlia
per tutte le terre e tutti i mari.
Né l’Aurora arrivando coi capelli umidi,
né Espero la videro mai riposarsi; accese due fiaccole
di pino dal fuoco dell’Etna e, tenendone una per ogni mano,
camminò irrequieta nella notte gelida.
Poi quando il giorno fecondo oscurò gli astri,
continuava a cercarla da occidente ad oriente.
Sfinita dalla fatica – aveva sete e a nessuna
fonte si era rinfrescata le labbra – vide per caso
una capanna col tetto di paglia, e bussò alla piccola porta.
Venne fuori una vecchia, vide la dea che chiedeva dell’acqua e le diede
una bevanda dolce, con dentro orzo tostato.
Mentre beve, un ragazzo temerario e sfacciato
le rise in faccia e la chiamò ingorda; la dea
si offese e, senza finire di bere, mentre quello ancora
parlava, gli tirò addosso l’orzo inzuppato.
Il volto assorbì le macchie, e dove aveva le braccia
ebbe zampe, alle membra mutate fu aggiunta una coda,
e perché non avesse gran forza di nuocere,
fu rattrappito in una breve figura, più piccolo di una lucertola.
Fuggì via della vecchia che piangeva stupita e cercava
di toccare il prodigio, e cercò un nascondiglio: ebbe un nome
adatto alla pelle, stellio per essere costellato di chiazze.
Foto: “Ratto di Proserpina“, dipinto di Luca Giordano (1634-1705)