La storia di Aci e Galatea narra di amori non corrisposti, gelosie ed amori negati, storia di ordinaria follia che culmina in tragedia, come spesso accade anche nella realtà dei nostri giorni.
La leggenda, che Ovidio narra nel XIII libro delle Metamorfosi, si svolge in Sicilia, nell’ area vulcanica e costiera dell’Etna, racconta di Galatea innamorata e ricambiata del giovane pastore Aci, che era a sua volta amata dal Ciclope Polifemo.
I protagonisti mitologici di questa leggenda
La donna contesa è la bellissima Galatea, una delle cinquanta ninfe del mare, le Nereidi, figlie di Nereo e di Doride, divinità marine che hanno il compito di assistere i marinai. Omero ne parla nell’Iliade (libro XVIII).
Protagonista maschile respinto è Polifemo, un ciclope figlio di Poseidone e di Toosa, una ninfa dei mari. Viene descritto nel 9° libro dell’Odissea come un rozzo e bestiale pastore monocolo, ma oltre ad Omero è stato citato da vari autori antichi: Teocrito, che lo descrive in un modo più amichevole e simpatico, dipingendogli un carattere gentile; Euripide ne fa il protagonista del primo dramma sitirico; Virgilio gli regala una brevissima apparizione nel terzo libro dell’Eneide.
L’amore ricambiato è rappresentato da Aci, un pastore bellissimo, figlio di Fauno e della ninfa Simetide.
Il mito di Aci e Galatea
Come era solita fare la bellissima Galatea giocava sulla spiaggia e con le sue amiche ninfe, gioiose e festanti, nel limpido specchio di mare dell’isola, quando un giorno apparve dalla collina il gigantesco figlio di Poseidone, Polifemo, che si innamorò di Galatea e decise che la bella ninfa doveva essere sua.
Ma Galatea rifiutò in tutti i modi l’amore di Polifeno, come confida lei stessa a Scilla:
Un giorno Galatea, mentre le offriva la chioma da pettinare, sospirando dal profondo del cuore, le fece questo discorso:
«Tu almeno, fanciulla, sei desiderata da uomini civili e puoi negarti a loro, come fai, senza timore. Ma io, che pure sono figlia di Nèreo, partorita dalla cerulea Dòride, che ho alle spalle uno stuolo di sorelle, solo a prezzo di grandi sofferenze ho potuto sottrarmi alla passione del Ciclope».
E il pianto le impedì di continuare.
Scilla la pregò di continuare il racconto:
«Aci era figlio di Fàuno e di una ninfa nata in riva al Simeto: delizia grande di suo padre e di sua madre, ma ancor più grande per me; l’unico che a sé mi abbia legata.
Bello, aveva appena compiuto sedici anni e un’ombra di peluria gli ombreggiava le tenere guance.
Senza fine io spasimavo per lui, il Ciclope per me.
Se tu mi chiedessi cosa prevaleva in me, l’odio per il Ciclope o l’amore per Aci, non saprei rispondere: non c’era differenza.
Oh, quanto è il potere del tuo dominio,divina Vènere!
Il ciclope Polifemo innamorato ardentemente della ninfa Galatea, che amava il dolce pastorello Aci, la celebra in un canto con dolci parole, ma anche con durezza visto il suo rifiuto ed il disprezzo verso l’amore del gigante con un solo occhio prova:
“O Galatea, più candida di un candido petalo di ligustro, più in fiore di un prato, più slanciata di un ontano svettante, più splendente del cristallo, più gaia di un capretto appena nato, più liscia di conchiglie levigate dal flusso del mare, più gradevole del sole in inverno, dell’ombra d’estate, più amabile dei frutti,751 più attraente di un platano eccelso, più luminosa del ghiaccio, più dolce dell’uva matura, più morbida di una piuma di cigno e del latte cagliato, e, se tu non fuggissi, più bella di un orto irriguo;
ma ancora, Galatea, più impetuosa di un giovenco selvaggio, più dura di una vecchia quercia, più infida dell’onda, più sgusciante dei virgulti del salice e della vitalba, più insensibile di questi scogli, più violenta di un fiume, più superba del pavone che si gonfia, più furiosa del fuoco, più aspra delle spine, più ringhiosa dell’orsa che allatta, più sorda dei marosi, più spietata di un serpente calpestato, e, cosa che più d’ogni altra vorrei poterti togliere, più veloce, quando fuggi, non solo del cervo incalzato dall’urlo dei latrati, ma del vento che soffia impetuoso!
Ma, se mi conoscessi meglio, ti pentiresti d’esser fuggita e, cercando di trattenermi, condanneresti il tempo perduto.
Posseggo una grotta, in una parte del monte, con la volta di roccia viva, dove non si soffre il sole in piena estate o il gelo d’inverno. Ho alberi carichi di frutta e, sui lunghi tralci del vigneto, un’uva che sembra d’oro, e un’altra color porpora: per te le serbo entrambe.
Con le tue mani potrai cogliere succose fragole, nate all’ombra dei boschi, corniole in autunno e prugne, non solo quelle violacee dal succo scuro, ma quelle pregiate che sembrano di cera fresca.
Se mi sposerai, non ti mancheranno le castagne, i frutti del corbezzolo: ogni pianta sarà al tuo servizio. Tutto questo bestiame è mio; molto altro vaga per le valli, molto si nasconde nel bosco e molto ancora è chiuso nelle grotte. Se tu me lo chiedessi, non saprei dirtene il numero. Solo i poveri contano le bestie. Sulla loro qualità non pretendo che tu mi creda: vieni sul posto e vedrai da te come a stento stringano tra le zampe poppe così gonfie. E aggiungi i piccoli appena nati, agnelli in tiepidi ovili, capretti della stessa età in altri ovili.
Da me non manca mai il niveo latte: parte è destinato al bere, parte si fa rapprendere sciogliendovi il caglio. E i regali che riceverai non saranno i soliti fatui trastulli, come cerbiatti, lepri o capretti, una coppia di colombi o un nido tolto dalla cima di un albero. In vetta alla montagna, perché possano con te giocare, ho scovato due cuccioli d’orsa villosa, così simili fra loro, che a stento sarai in grado di distinguerli; li ho scovati e ho pensato: ‘Questi li terrò per la mia donna’.
Avanti, solleva il tuo bel capo dal mare azzurro, avanti, vieni, Galatea, e non spregiare i miei regali.
Io mi conosco, sai, poco fa in uno specchio d’acqua mi son visto riflesso e ciò che ho visto del mio aspetto mi ha soddisfatto.
Osserva quanto son grande: neppure Giove in cielo ha un corpo grande come il mio (voi parlate sempre che lì regna un non so quale Giove). Una chioma foltissima mi spiove sul volto truce e mi vela d’ombra le spalle, come un bosco. E non credere brutto che il mio corpo irto sia tutto di fittissime e dure setole; brutto è l’albero senza fronde, brutto il cavallo senza criniera che gli ammanti il biondo collo; piume ricoprono gli uccelli, beltà delle pecore è la lana: agli uomini si addicono la barba e il pelo ispido sul corpo.
Ho un occhio solo in mezzo alla fronte, ma a un grande scudo lui assomiglia. E poi? Dall’alto del cielo il Sole non vede tutto l’universo? Eppure anche lui ha un occhio solo.
Aggiungi che mio padre è il re del vostro mare: io te l’offro come suocero. Abbi solo un po’ di pietà e ascolta, ti supplico, le mie preghiere: a te sola mi sono prosternato.
Io che disprezzo Giove, il cielo e il fulmine che tutto penetra, temo solo te, Nerèide: peggiore del fulmine è l’ira tua.
Ma persino il tuo disprezzo potrei io sopportare, se rifiutassi tutti. Perché invece respingi il Ciclope e ami Aci? Perché ai miei amplessi preferisci i suoi?
Che lui si compiaccia pure di sé stesso e, cosa che non vorrei, piaccia anche a te, Galatea; ma se capita l’occasione, sentirà come corrisponde a questo corpo immenso la mia forza.
Lo squarterò vivo e per i campi, sopra le acque in cui vivi a brandelli scaglierò le sue membra: e s’unisca a te se gli riesce!
Brucio, brucio, e la mia passione offesa più indomabile divampa, mi sembra che con tutte le sue forze l’Etna mi sia entrato in petto: ma tu, Galatea, non ti commuovi!”
Dopo questi vani lamenti Polifemo scoprì i due amanti insieme, infuriato, scagliò una grande pietra contro di loro. Aci fu colpito a morte. Galatea tentò in ogni modo di riportarlo in vita, ma non ci riuscì, così chiese agli dei che il sangue del giovane si trasformasse in un fiume in cui ella avrebbe potuto immergersi per congiungersi per sempre all’amato.
Noi, unica cosa che permetteva il destino, facemmo in modo che in Aci riaffiorasse la natura avita.
Ai piedi del masso colava un sangue rosso cupo: non passa molto tempo che il rosso comincia a impallidire, prima assume il colore di un fiume reso torbido dalla pioggia, poi lentamente si depura. Infine il macigno si fende e dalle fessure spuntano canne fresche ed alte, mentre la bocca apertasi nel masso risuona d’acqua a zampilli.
È un prodigio: all’ improvviso ne uscì sino alla vita un giovane con due corna nuovissime inghirlandate di canne, che, se non fosse stato così grande e col volto ceruleo, Aci sarebbe stato. Ma anche così era Aci mutato in fiume, un fiume che conservò il suo antico nome».
Fu così che dal mito nacque il fiume Aci, un breve corso d’acqua che attraversava molti villaggi, che persero appunto il prefisso di Aci (Aci Castello, Acitrezza, Acireale, Aci Bonaccorsi, Aci Sant’Antonio, Aci Catena, Aci San Filippo, Aci Platani, Aci Santa Lucia) e dove secondo leggenda, Polifemo avrebbe buttato nove parti del corpo di Aci.
Oggi, fra Aci Reale e Aci Trezza, nel paese costiero di Capo Mulini esiste ancora una sorgente chiamata dai residenti “Il sangue di Aci”, nome scelto anche per la colorazione dei depositi lungo l’affioramento della fonte.
Il dio Aci fa sentire ancora la sua presenza con spinte verso l’alto di acqua particolarmente fredda e non salata proveniente da spaccature nel fondo marino.
Sapete, c’è un punto della Sicilia, vicino ai luoghi citati, in cui il mare sembra avere il colore del vino, come cita anche Leonardo Sciascia nel racconto Il mare color del vino, chissà, potrebbe essere Aci ricongiunto con la sua Galatea.