L’ultima settimana di settembre, romanzo di Lorenzo Licalzi edito da Rizzoli, pubblicato nel 2015, un racconto esilarante e commovente del viaggio di un nonno e un nipote alla ricerca di se stessi.
“Ci sono dolori che non hanno tempo, immobili, enormi, mille volte più forti della nostra capacità di soffrire, mille volte più forti della nostra capacità di sopportarli, e che il tempo modifica solo all’apparenza, allo sguardo degli altri. Sono dolori che restano, inesorabili come un pugnale nel cuore. Dolori così grandi che ti fanno sentire in colpa se per un attimo riesci a dimenticarli con le incombenze della quotidianità o peggio ancora con una possibilità di svago. Ci convivi, perché ci convivi, ma è come avere questo pugnale nel cuore che come ti muovi, perché magari ti sei distratto, si muove un pochino anche lui, e il giorno dopo si vendica e te lo fa sanguinare di nuovo, e di più. Come se il mio cuore non avesse già sanguinato fino al dissanguamento”
Pietro Rinaldi ha ottant’anni e vuole essere lasciato in pace. Ormai è convinto che la sua vita sia arrivata al capolinea e, mentre mangia penne all’arrabbiata, riflette su quanto i libri siano meglio delle persone.
Se già fatica a sopportare se stesso, figuriamoci gli altri! Non ha proprio intenzione di avere a che fare con l’umanità, fino a quando, un giorno, nel suo mondo irrompe Diego, il nipotino quindicenne.
Lui ha l’entusiasmo degli adolescenti e la forza di chi non si lascia abbattere dagli eventi, neanche da quelli più terribili, e non ha paura di zittire i malumori del nonno.
Da Genova partono in direzione di Roma, a bordo di una Citroën DS Pallas decapottabile su cui sembra di volare. Sul sedile posteriore c’è Sid, l’enorme incrocio tra un San Bernardo e un Terranova – vera e propria calamità.
Ed è così che un viaggio di sola andata si trasforma in un’avventura on the road, piena di deviazioni e ripensamenti, vecchi amori e nuove gioie. Perché è proprio quando credi di aver visto tutto che scopri quanto la vita riesca ancora a sorprenderti.
È una storia che, senza giri di parole, scava nei sentimenti più profondi e ci porta di fronte alle emozioni più vere, quelle che richiedono una buona dose di coraggio per essere affrontate ma rimangono impresse indelebili dentro di noi. Recensioni molto positive.
Il 22 settembre 2008, giorno del mio ottantesimo compleanno, intorno alle sette di sera, scrivevo la lettera che annunciava il mio suicidio. Non la classica lettera d’addio melodrammatica, infarcita di “mi dispiace”, richieste di perdono o piagnistei di autocommiserazione, ma piuttosto un gioco, un regalo che facevo prima di tutto a me stesso (ammetto che a scriverla mi sono divertito), e in seconda battuta ai miei vecchi lettori, ammesso che venisse pubblicata da qualche parte. Vecchi lettori non solo perché erano secoli che non pubblicavo, ma anche perché, inevitabilmente, erano invecchiati con me. Diciamo che quella lettera poteva considerarsi l’ultima fatica letteraria di Pietro Rinaldi, scrittore (Milano 1928 – Genova 2008). E aggiungerei scrittore di un certo successo, almeno fino al definitivo ritiro avvenuto, già in pieno declino, nel 1990, con la pubblicazione del romanzo: Andate tutti affanculo. Lettori compresi quindi, come avevo spiegato in modo esaustivo nel celebre capitolo finale Tutti quelli che mi stanno sul cazzo, di cui i lettori, o meglio, certi tipi di lettori, erano nondimeno soltanto una goccia nell’oceano mare composto da tutti coloro a cui avevo dedicato il capitolo. Un flop.
Il titolo lo imposi io, l’editore non voleva, insistette fino allo sfinimento per farmelo cambiare, ma fui irremovibile, anche se, col senno di poi, forse non aveva tutti i torti. Cedetti solo per la copertina, sulla quale avrei voluto una foto o un disegno di una mano con il dito medio alzato. Per avere garanzia di riuscita nel flop (era il mio desiderio, neppure tanto inconscio, così mi avrebbe offerto la scusa per l’addio alle armi e nessuno mi avrebbe più chiesto di riabbracciarle) avevo fatto inserire nel contratto due interessanti postille: che non ci sarebbe stata nessuna promozione al libro che comportasse la mia presenza e che non avrei partecipato ad alcun premio letterario (del resto, con un titolo così, difficilmente avrei vinto lo Strega). Inoltre, misi bene in chiaro che non avevo la benché minima intenzione di sottopormi alla solita manfrina delle copie firmate e inviate ai critici letterari, alcuni dei quali, tra l’altro, erano citati con tanto di nome e cognome nella classifica del suddetto celebre capitolo. Come logica conseguenza, non uscirono molte recensioni, e quelle che uscirono furono micidiali stroncature. Naturalmente, giusto per restare in tema, nel celeberrimo capitolo finale erano citati anche gli scrittori, intesi vuoi come categoria dello spirito vuoi, in qualche caso, come singole individualità. Avevo acconsentito invece a che la casa editrice facesse pubblicità sui vari quotidiani, ma purtroppo, mi dissero dopo, nessun giornale accettò. Del resto, che «Repubblica» o il «Corriere della Sera», nel 1990, se ne uscissero in prima pagina con una finestra pubblicitaria dove era scritto “Andate tutti affanculo” era piuttosto improbabile.