Il mito di Orfeo ed Euridice è una delle leggende più note della mitologia greca, una storia d’amore tra Orfeo, un poeta e musicista, e Euridice, una bellissima ninfa.
Orfeo, secondo Luciano De Crescenzo nel suo libro Zeus, I miti dell’amore, potrebbe essere considerato il primo cantautore della storia, e non poteva che essere così visto che è figlio dell’unione di Calliope, la Musa del Canto e della poesia epica, conosciuta come la Musa di Omero, l’ispiratrice dell’Iliade e dell’Odissea e di Apollo dio di tutte le arti, della musica e della poesia, insomma figlio d’arte.
Quando Orfeo si metteva a suonare accadevano cose incredibili, ma cantava soprattutto per l’amata ninfa Euridice, purtroppo si era innamorato di lei anche Aristeo, un apicoltore, altro figlio di Apollo che tentò di farla sua poco prima che andasse in sposa a Orfeo, nell’inseguimento che seguì Euridice riuscì più volte a sfuggirgli, finché accidentalmente calpestò un serpente velenoso che la uccise con il proprio morso.
Orfeo, disperato, intonò canzoni così cariche di disperazione che tutte le ninfe e gli dei ne furono commossi. Gli fu consigliato di scendere nel regno dei morti per tentare di convincere Ade (Plutone) e Persefone (Proserpina) a far tornare in vita la sua amata, così fece e le sue canzoni fecero persino piangere le Erinni (o Furie), le personificazioni femminili della vendetta.
I sovrani infernali commossi gli restituirono la sua amata ad una condizione: Orfeo, mentre tornava sui suoi passi, non si sarebbe dovuto voltare fino a quando non avesse raggiunto il regno dei vivi. Quando stanno per uscire dal regno dei morti, mentre già i raggi del sole filtravano dall’alto, per il grande amore e l’irresistibile desiderio di contemplare il volto amata, Orfeo si gira e in un attimo tutto perduto: Euridice scompare, risucchiata per sempre nella voragine infernale.
Orfeo, tornato sulla terra, espresse il dolore fino ai limiti delle possibilità artistiche, incantando nuovamente le fiere e animando gli alberi. Pianse per sette mesi ininterrottamente, secondo Virgilio, mentre Ovidio riduce il numero a sette giorni.
Secondo la versione virgiliana le donne dei Ciconi videro che la fedeltà di Orfeo nei confronti della moglie morta non si piegava e per la sua decisione di non amare più nessuno dopo la morte di Euridice, in preda all’ira lo fecero a pezzi e ne sparsero i resti per la campagna.
Mentre nella versione di Ovidio Orfeo abbandona il culto del dio Dioniso rinunciando all’amore eterosessuale. In tale contesto si innamora profondamente di Calais, figlio di Borea, e insegna l’amore omosessuale ai Traci. Per questo motivo, le Baccanti della Tracia, seguaci del dio, furenti per non essere più considerate dai loro mariti, lo assalgono e lo fanno a pezzi.
In entrambi i poeti si narra che la testa di Orfeo finì nel fiume Ebro, dove continuò prodigiosamente a cantare, simbolo dell’immortalità dell’arte.
Orfeo ed Euridice di Ovidio
Di questo mito ne parla, come abbiamo già citato, Ovidio nelle Metamorfosi, che racconta la storia iniziando dal matrimonio dei due innamorati sui quali grava un triste presagio. La morte di Euridice avviene subito dopo le nozze, questa scelta dell’autore la rende ancora più drammatica.
E Virgilio nelle Georgiche inserisce la narrazione di questa storia in un altro mito, quello di Aristeo:
E già riportando indietro il passo era sfuggito a tutte le vicissitudini;
ed Euridice, essendo stata restituita, andava verso l’aria aperta,
seguendolo da dietro – infatti Proserpina aveva dato questa condizione -,
quando una improvvisa follia prese l’incauto amante,
una follia da perdonare certamente, se i Mani sapessero perdonare.
Si fermò e, ahimè! vinto nell’animo, guardò la sua Euridice alla luce immemore.
Lì ogni fatica fu dispersa e furono rotti i patti del tiranno
spietato, e tre volte un fragore fu sentito negli stagni averni.
Quella disse: “Chi mandò in rovina me misera e te, o Orfeo,
quale grande follia? Ecco di nuovo i crudeli fati mi chiamano
indietro e un sonno seppellisce gli occhi che vacillano. Ora addio:
vengo trascinata dopo essere stata circondata da una notte profonda
e mentre, non più tua, tendo a te le mani prive di forze!
Parlò e improvvisamente fuggì dagli occhi,
come il tenue fumo mescolato all’aria, e Orfeo non vide
che cercava invano di afferrare le ombre e che voleva dire
molte cose, e il traghettatore dell’Orco non accettò
che quello attraversasse nuovamente la palude posta davanti.
Che cosa avrebbe dovuto fare? Dove si sarebbe dovuto recare
dopo che la moglie gli era stata tolta due volte?
Con quale pianto avrebbe potuto commuovere i Mani, quali Numi con la voce?
Quella certamente già fredda naviga con la navicella stigia.
Dicono che per sette mesi interi quello abbia pianto
sotto una rupe a picco, presso l’onda deserta dello Strimone
e abbia raccontato queste cose in antri gelidi
addolcendo le tigri e trascinando le querce con il canto;
come un usignolo afflitto si lamenta all’ombra
del pioppo per i figli persi, che il crudele aratore,
vedendoli, sottrasse implumi al nido; ma quella
piange di notte e sedendo su un ramo ripete un carme miserabile
e riempie ampiamente i luoghi di tristi lamentele.
Nessun amore, nessun imeneo piegò il suo animo.
Da solo passava in rassegna i ghiacci iperborei e le nevi del Tanai
e le regioni mai prive di nevi della Scizia
cercando Euridice che gli era stata sottratta e i vani doni
di Dite; e le madri dei Ciconi, rifiutate a causa di questo rimpianto,
tra i rituali degli dei e le orge notturne di Bacco,
dispersero nei vasti campi il giovane fatto a pezzi.
Anche allora, mentre l’Ebro Eagrio trasportava la testa strappata dal collo
di marmo portandola in mezzo ai gorghi,
la voce stessa e la fredda lingua invocava:
“Euridice! Oh misera Euridice!” mentre l’anima fuggiva:
in tutto il fiume le sponde ripetevano “Euridice”.