Lo Stretto di Messina sin dai tempi più antichi ha susciatato fascino e suggestione, poichè la navigazione dello stretto non era molto facile visto le varie difficoltà presenti, come le fortissime correnti e i violenti venti. I suoi miti e le sue leggende risalgono ai tempi di Crono (Saturno), appartenente alla generazione divina che precedette la casta degli dei olimpici, che fece cadere la sua falce, usata per evirare il padre Urano (Cielo) per liberare i fratelli, sulla terra originando quella lingua di terra dalla particolare forma di falce, chiamata appunto Zancle (falce). Fu poi il mitico gigante Orione, figlio del dio Nettuno, che su incarico del re Zanclo adattò la falce a bacino portuale, mentre la separazione della Sicilia dalla Calabria, viene attribuita ad un poderoso colpo di tridente del dio Nettuno (Poseidone). E poi ci sono loro, Scilla e Cariddi, i due mostri marini che vivono nello Stretto.
Una rappresentazione dei due mostri la troviamo nella fontana monumentale, in piazza Unità d’Italia di Messina, del “Nettuno” del Montorsoli, scultore toscano e collaboratore di Michelangelo.
Scilla (colei che dilania), secondo la mitologia greca, era una ninfa, nata da Forco (o Forcide, dio delle profondità marine) e di Ceto (mostro marino). Invece secondo narrazione dell’Odissea è figlia di una dea, chiamata Crateide (dea dei negromandi e degli incantatori) o figlia di di Ecate (Dea della psiche, signora delle ombre e dei fantasmi notturni e anche dea della magia e degli incantesimi).
Abitava le coste della Calabria e la natura le aveva fatto dono di bellezza e grazia, amava recarsi sugli scogli della di Zanche (Messina) per passeggiare e allietare i lidi col suono delicato della sua cetra.
Una sera sentì un rumore provenire dal mare e notò un’onda dirigersi verso di lei, da questa apparve un essere metà uomo e metà pesce, era Glauco, un dio marino che un tempo era stato un pescatore.
Scilla, impaurita, si rifugiò sulla vetta di un monte. Il dio marino si innamorò perdutamete della ninfa ed iniziò a urlarle il suo amore e le raccontò la sua drammatica storia.
Un tempo Glauco era un pescatore, un giorno mentre sistemava i pesci appena pescati sull’erba per contarli li vide muoversi in branco e tornare in mare saltellando, esterrefatto da tale prodigio pensò che il fenomeno dipendesse dall’erba e ne mangiò qualche filo. Subito sentì un cambiamento, un nuovo essere nacque dentro di lui e lo strasformò in una creatura dell’acqua.
Gli dei del mare lo accolsero benevolmente tanto che pregarono Oceano e Teti di liberarlo dalle ultime sembianze di natura umana e terrena e di renderlo un essere divino. Accolta la loro preghiera, Glauco fu trasformato in un dio e dalla vita in giù fu mutato in un pesce.
Scilla, dopo aver ascoltato il racconto di Glauco, noncurante del suo dolore, andò via lasciandolo solo e disperato. Allora Glauco pensò di recarsi dalla maga Circe sperando che potesse fare un sortilegio per far innamorare Scilla di lui. Circe innamorata di Grauco usò i suoi magici filtri per eliminare la rivale e la trasformò in un mostro dal corpo di donna fino al ventre e sotto fece spuntare sette mostruose teste di cane, la ninfa per l’orrore si gettò in mare e si nascose nella sponda calabrese dello stretto di Messina e quando i naviganti si avvicinavano a lei con le sue bocche li divorava.
Ovidio nelle Metamorfosi racconta la tragica storia dell’amore di Glauco per la bella Scilla.
«Era un bel prato lì presso la spiaggia, cui parte copriva
L’onda del mare, cingevano parte le tenere erbette,
Che le giovenche cornute non morsero lè quiete
Pecore mai non brucarono nè mai l’irsute caprette.
…Per primo
Sopra quel cespo sedetti seccando le madide nasse;
E, per contarli, sul prato disposi con ordine i pesci
(…)
Tutti quei pesci cominciarono a muoversi al tocco dell’erba,
Guizzano e saltano in terra così come fossero in mare.
Mentre mi indugio e stupisco, lo stuolo di tutti quei pesci
Gittasi dentro nell’onde native e me lascia e la spiaggia.
(…)
Mi meraviglio, rimango perplesso, ne cerco la causa,
se qualche nume abbia fatto il miracolo o il succo dell’erba.
Ma qual’è l’erba così portentosa? Ne velsi un pugnetto
Con una mano e la morsi coi denti. Ma come la gola
Ebbe inghiottito l’incognito succo, sentii trepidarmi
Tosto i precordi e nel petto l’amore di un altro elemento.
Poco potei rimanere sul lido e sclamai: – Vale, terra,
Dove non ritornerò! – e m’immersi col corpo nell’onde.
Gli dei marini degnarsi d’accogliermi come compagno;
Pregar l’Oceano e Teti di tormi la parte mortale.
(…)
Quando rinvenni trovai che del tutto non ero più quello
c’ero già stato pel corpo e che l’animo aveno diverso.
Di verde cupo mi vidi la barba allor tinta la prima
Volta ed i lunghi capelli che strascico sul vasto mare;
Vidi le braccia cerulee e gli omeri fatti stragrandi
E, come cosa di pesce, ricurve le gambe all’estremo».
Virgilio nell’Eneide ci racconta di Scilla che fu trasformata in un essere che dal petto in su aveva sembianze di donna mentre dal petto in giù aveva sembianze di lupo e di pesce.
«Scilla dentro a le sue buie caverne
Stassene insidiando; e con le bocche
De’ suoi mostri voraci, che distese
Tien mai sempre ed aperte, i naviganti
Entro al suo speco a se tragge e trangugna.
Dal mezzo in su la faccia, il collo e ‘l petto
Ha di donna e di vergine; il restante
D’una pistrice, immane, che simili
A’ delfini ha le code, ai lupi il ventre».
Mentre Omero nell’Odissea fa questa descrizione:
«Scilla ivi alberga, che moleste grida
Di mandar non ristà. La costei voce
Altro non par che un guaiolar perenne
Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce
Mostro, e sino a un dio, che a lei si fesse,
Non mirerebbe in lei senza ribrezzo,
Dodici ha piedi, anteriori tutti,
Sei lunghissimi colli e su ciascuno
Spaventosa una testa, e nelle bocche
Di spessi denti un triplicato giro,
E la morte più amara di ogni dente.
Con la metà di se nell’incavo
Speco profondo ella s’attuffa , e fuori
Sporge le teste, riguardando, intorno,
Se delfini pescar, lupi, o alcun puote
Di Que’ mostri maggior che a mille a mille
Chiude Anfitrite nei suoi gorghi e nutre.
Né mai nocchieri oltrepassaro illesi:
Poichè, quante apre disoneste bocche,
Tanti dal cavo legno uomini invola».
Cariddi (colei che risucchia), era una ninfa figlia di Poseidone (o di Forco) e di Gea, che viveva sulle sponde Siciliane, era dedita alle rapine e famosa per la sua voracità. La leggenda narra che avrebbe rubato e divorato i buoi di Eracle (Ercole) che era passato dallo Stretto e che Zeus l’avrebbe punita tramutandola in un gigantesco mostro con una bocca piena di varie file di numerosissimi denti e una infinita voracità, infatti ingoiava l’acqua del mare e la risputava tre volte al giorno con tale violenza da far naufragare le navi di passaggio. Alcuni autori narrano invece, che la ninfa sarebbe stata uccisa da Eracle stesso, ma poi resuscitata da suo padre Forco.
Omero nell’Odissea narra di Cariddi:
L’altro scoglio, più basso tu lo vedrai, Odisseo,
vicini uno all’altro,
dall’uno potresti colpir l’altro di freccia.
Su questo c’è un fico grande, ricco di foglie;
e sotto Cariddi gloriosamente l’acqua livida assorbe.
Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe
paurosamente. Ah, che tu non sia là quando riassorbe.