
Nero a Manhattan è un romanzo thriller scritto da Jeffery Deaver, pubblicato nel 1988, primo volume della della trilogia di Rune, seguito da Requiem per una pornostar e Hard news. Una storia dalle atmosfere di un noir degli anni quaranta dove viene svelanto il volto di una New York insolita e affascinante, con una detective decisamente fuori dagli schemi.
“Il ritaglio, preso dal «New York Journal American» e datato 1948, aveva come titolo La vera storia del crimine di Gotham in un film. Era sottolineato, e c’erano asterischi sui margini.
Gli spettatori del film Nero a Manhattan, uscito nelle sale della 42a Strada, vi avranno riconosciuto la vera storia di un poliziotto di New York…”
Togliere di mezzo Robert Kelly, un anziano e solitario signore il cui unico passatempo consiste nel guardare e riguardare lo stesso vecchio film giallo, si direbbe un gioco da ragazzi per una coppia di veri professionisti come Haarte e Zane. Peccato che anche i lavoretti più facili a volte possano riservare imprevisti. In questo caso l’imprevisto si chiama Rune, ha vent’anni, è bella ed eccentrica, cambia lavoro con la stessa disinvoltura con cui cambia colore di capelli. E, soprattutto, è troppo curiosa e ostinata per tenersi lontano dai guai.
“Io credo che la vita ti dia solo quanto ci investi.”
È lei che, nella scalcinata videoteca del Greenwich Village in cui lavora, ha dato a noleggio a Kelly il solito film, “Nero a Manhattan”, che il vecchio stava guardando nel momento in cui, nel suo appartamento, è stato freddato con tre colpi di pistola. Ed è sempre lei – che con il vecchio ha stretto un’improbabile quanto sincera amicizia – a nutrire il sospetto che nei fotogrammi in bianco e nero di quella vecchia pellicola possa celarsi la chiave per svelare il mistero della sua morte. Rune si getta così in una pericolosa indagine privata, che, tra equivoci e scambi di persona, porterà alla luce la verità che si cela dietro un omicidio apparentemente inspiegabile.
“Nero a Manhattan. Millenovecentoquarantasette. Oh, questa roba è tutta inventata. Dunque. L’intenso dramma di un giovane poliziotto idealista a New York, diviso tra dovere e avidità.”
Le recensioni non sono molto positive, alcuni sono stati delusi non ritrovandolo alla stessa altezza delle opere successive, accusando una scrittura acerba, la parola più comune è “noioso”. Mentre ad alcuni è piaciuto e confermano il talento dell’autore già da questa prima pubblicazione, trovandolo leggero e piacevole.
Non resta che leggerlo per una nostra personale opinione.
Per la prima volta in sei mesi, si sentiva al sicuro.
Dopo due cambi d’identità e tre nuovi indirizzi, cominciava davvero a credere di averla scampata.
Una nuova sensazione si era impossessata di lui, una tranquillità inconsueta. Era da tanto che non provava nulla di simile, pensò, mettendosi a sedere sul letto della sua camera d’albergo, con vista sullo strano arco argentato che incorniciava il lungofiume di St. Louis. Respirò l’aria primaverile del Midwest.
Alla televisione davano un vecchio film. Lui adorava i vecchi film. Era L’infernale Quinlan, diretto da Orson Welles, con Charlton Heston nella parte di un messicano. Heston non somigliava per niente a un messicano, ma d’altra parte non somigliava nemmeno a Mosè.
Arnold Gittleman rise tra sé di questa piccola facezia, e la riferì all’uomo taciturno che, seduto accanto a lui, era intento a leggere la rivista «Armi & Munizioni». L’uomo gettò uno sguardo allo schermo. «Messicano?» chiese. Guardò il televisore per qualche secondo. «Ah, capito.» E tornò a dedicarsi alla sua rivista.
Gittleman si appoggiò alla testiera del letto, felice di scoprirsi ancora capace di pensieri leggeri come quello su Heston. Pensieri scanzonati. Pensieri frivoli. Voleva dedicarsi al giardinaggio o a ridipingere mobili da esterno, o portare suo nipote a una partita di baseball. Voleva che sua figlia e il marito lo accompagnassero sulla tomba di sua moglie, da cui, negli ultimi sei mesi, aveva preferito tenersi alla larga.
«Allora» disse l’altro uomo, alzando gli occhi dalla rivista. «Che mangiamo stasera? Ordiniamo dall’ebreo?»
Gittleman, che da Natale aveva perso quindici chili, assestandosi sui novantadue, disse: «Per me va bene».
E si rese conto che ne aveva voglia davvero. Erano secoli che non si sentiva così piacevolmente affamato. Un grosso, grasso panino dell’ebreo. Pastrami. Aveva già l’acquolina in bocca. Mostarda. Pane di segale. Fettine di cetriolo.
«No, ragazzi» intervenne un terzo uomo, uscendo dal bagno. «Pizza. Ordiniamo una pizza.»
L’uomo taciturno appassionato di armi e l’uomo della pizza erano due agenti federali. Entrambi giovani, con i volti impassibili e accigliati, indossavano completi da poco che, fra l’altro, gli stavano piuttosto male. Eppure, Gittleman non si sarebbe fatto guardare le spalle da nessun altro. E poi anche lui aveva avuto una vita difficile, e si rendeva conto che, a dispetto delle apparenze, i due agenti sapevano il fatto loro. Conoscevano la legge della strada, e in fondo questa era la sola cosa che contasse davvero.
Nell’ultimo periodo, Gittleman si era affezionato sempre più a quei due. E visto che non gli era permesso avere contatti con la famiglia, li aveva praticamente adottati. Li chiamava Figlio Uno e Figlio Due. Gliel’aveva anche detto. Per loro certo non rappresentava una figura paterna, ma in fin dei conti era piacevole sentirsi chiamare così. Ammettevano che, nella maggior parte dei casi, dovevano proteggere gente che loro stessi consideravano feccia, e Gittleman, anche se non era un santo, di certo non rientrava in quella categoria.