Peccato mortale è un giallo vintage scritto da Carlo Lucarelli, pubblicato nel 2018, con protagonista il commissario De Luca, nato in parti uguali dalla inventiva letteraria e dai documenti storici, sullo sfondo delle vicende politico sociali.
C’è una macchia nel passato del commissario De Luca, qualcosa che lo ha reso ricattabile e lo ha costretto, da li in poi, a rincorrere sé stesso. È il suo peccato mortale.
“Lorenza gli soffiò un bacio sulla punta delle dita e raggiunse gli altri, aggiustandosi il costume sulle cosce. Era bella, Lorenza, di una bellezza tranquilla e poco appariscente, ma cosí naturalmente elegante da trasformare in un abito da sera anche un vecchio costume come quello, con la sottanina e le spalle coperte. De Luca la guardò entrare in acqua tra gli schizzi, gridando come una bambina, ed era già arrivato in fondo alla fila dei bottoni quando di nuovo si perse. In un attimo era ancora laggiú, al casolare dell’uomo senza testa”
Quello tra il 25 luglio e l’8 settembre del 1943 è un periodo strano, allucinato. L’Italia si sveglia una mattina senza più il fascismo e praticamente la mattina dopo con i tedeschi in casa. Proprio nel caos di quei giorni De Luca, in forza alla polizia criminale di Bologna, si trova a indagare su un corpo senza testa. Semplice, perché in fondo si tratta di un omicidio, un lavoro da cane da caccia: chilometri a vuoto, piste da seguire e qualche cazzotto da mettere in conto se ficchi il naso dove non dovresti. Complicato, perché la vicenda assume presto risvolti politici che, date le circostanze, diventano molto pericolosi. Comunque sia il caso, è nella natura di De Luca, va risolto. Sempre. Anche a costo di accettare un compromesso.
Le recensioni sono molto positive, anzi parlano di un’opera migliore degli ultimi romanzi. Piace la scrittura sempre fluida, l’accuratezza storica e i personaggi intensi e veri.
Se non fosse inciampato sarebbe morto, perché il proiettile spaccò il vetro con lo schianto secco di un colpo di tosse e gli passò tra i capelli sulla nuca, di traverso, lasciandogli sulla pelle una ditata lucida e rossa come una scottatura.
De Luca piombò a terra senza neanche avere il tempo di mettere avanti le mani e affondò la faccia in un fagotto gonfio che piú che un sacco, morbido com’era, sembrava un cuscino.
Era la casa sbagliata. Si era perso nel buio senza luna di quella notte di fine luglio, attento piú a non finire nel canale che a distinguere le sagome scure dei casolari di quella parte di periferia che era già quasi campagna. L’oscuramento, e ancora di piú il bombardamento di quella mattina, anche se lontano, avevano spento i pochi lampioni e quando De Luca si era trovato davanti quel muro nero e dritto aveva semplicemente seguito il piano di Rassetto, che prevedeva per lui l’ingresso da dietro, mentre gli altri facevano irruzione dal davanti.
La porta non era chiusa, e già avrebbe dovuto capirlo da quello che non era la casa del Borsaro, ma la parte militare delle operazioni non era mai stata il suo forte, era sempre troppo teso. Cosí andò avanti lo stesso, e siccome oltre la porta c’era una scala la fece a quattro zampe, come un gatto, perché la pila della sua torcia tascabile lo aveva lasciato già da un pezzo, e non si vedeva davvero niente.
Quando era arrivato in cima alla scala, distratto da un ronzio intenso di mosche che ribolliva nel caldo soffocante, non aveva fatto in tempo ad abituarsi al buio che qualcosa, tra i piedi, lo aveva fatto inciampare.
Poi, lo schianto del vetro dell’unica finestrella sotto il tetto spiovente, il bruciore sulla nuca, la stoffa morbida e gonfia che gli riempiva la faccia, neanche si era accorto che gli avessero sparato, convinto da quella roba vischiosa che gli faceva scivolare le mani mentre cercava di rialzarsi di aver spaccato lui un vaso di melassa, cadendo. Perché ne aveva sentito il vetro rotolare sulle assi del pavimento, perché ne aveva il naso pieno del suo odore dolce e perché era ancora sicuro che quello fosse un magazzino di generi alimentari di contrabbando.
Fuori, intanto, avevano cominciato tutti a urlare, e questa volta lo sentí, lo sparo, e capí che veniva da un’altra parte, e allora tirò fuori la pistola dalla tasca della giacca, a fatica, perché gli scivolava tra le dita gommose.
Tornò alla scala e scese piú in fretta, un po’ per l’adrenalina e un po’ perché il primo proiettile aveva infranto la tendina di polvere secca incrostata sul vetro della finestra e ci si vedeva un po’ di piú.
Girò attorno alla casa guidato dal rumore delle voci e uscí nel cortile buio dove c’era un ragazzo, una macchia bianca in mutande e canottiera, schiacciato a terra da Massaron, piú scuro e massiccio. Si sentiva dal tintinnare delle catenelle che gli stava mettendo le manette.
– Complimenti, commissario! – gli disse Massaron, entusiasta, dopo che l’ebbe riconosciuto mentre si avvicinava nell’oscurità. – Avevate ragione, stavano proprio qui! E dovete vedere che roba!
– Chi ha sparato? – chiese De Luca. – Lui? – e indicò il ragazzo.
– No, io. Due colpi in aria, a scopo intimidatorio.
Bravo coglione, pensò De Luca, e nemmeno lui avrebbe saputo dire se si riferiva alla guardia scelta Massaron o a sé stesso