Gli ultimi passi del Sindacone, un romanzo di Andrea Vitali, pubblicato nel 2018. Torna sulla scena la Bellano del primo dopoguerra, di cui l’autore mette in luce la voglia di riscatto, il frettoloso antifascismo esibito senza vergogna, gli appetiti della carne simbolo della voglia di vita che sta rianimando l’intero Paese, ma senza tralasciare quei piccoli segreti che rendono più sapido il tran tran quotidiano.
“Era un tempo in cui la guerra, benché finita da poco più di un anno e mezzo, era ben presente nella memoria e nelle parole di molti. La semplicità, la spensieratezza di quelle gite riportavano negli animi il sapore di una serenità che sembrava perduta e aiutavano a ricostruire, prima ancora di case, ponti e quant’altro, il morale.”
Attilio Fumagalli è un uomo pingue, anzi di più, soffre di obesità androide, nel senso che il grasso ce l’ha tutto attorno all’addome. Cinquant’anni, sposato con Ubalda Lamerti, senza figli, esercita in proprio la professione di ragioniere. Per vincere quel senso di vuoto che a volte lo aggredisce, più che per uno slancio ideale, si è dato alla politica nelle file della Democrazia Cristiana e sfruttando il giro della propria clientela è riuscito a farsi eleggere sindaco di Bellano. Per tutti, e per ovvie ragioni, lui è il Sindacone. L’attività istituzionale non lo occupa più di tanto. Oltre al disbrigo delle formalità correnti, riunisce la giunta ogni due mesi, due mesi e mezzo. Ultimamente, però, sotto questo aspetto, il Sindacone sembra aver impresso una svolta. Convoca la giunta ogni dieci giorni, a volte anche ogni settimana. Una voce o due all’ordine del giorno, una mezz’oretta di riunione e ciao. Ma oggi, 22 dicembre 1949, ha superato ogni limite: ha indetto una riunione per la sera della Vigilia di Natale. Per discutere di cosa? Di niente. Per scambiare gli auguri. E a più di uno degli assessori che si sono visti recapitare a mano la convocazione è saltata la mosca al naso. Per dirla tutta, al geometra Enea Levore è venuto il preciso sospetto che sotto a quella frenesia si nasconda qualcosa. Ma cosa? Basterebbe chiederlo al vicesindaco Veniero Gattei, se quello non tenesse la bocca rigorosamente cucita.
“Il soprannome di Sindacone gli era stato affibbiato quasi subito dopo le elezioni. Non aveva niente dispregiativo, anzi, sulla bocca di alcuni tendeva ad assumere una sfumatura affettuosa. Quando il Fumagalli ne era venuto a conoscenza non aveva fatto altro che scrollare le spalle. Se madre natura l’aveva fatto così, una ragione doveva esserci.”
Le recensioni sono positive, si parla di una storia di piacevole lettura, accattivante e rilassante, ma non solo, ci si ritrova più di un significato.
1.
Il 22 dicembre 1949 il messo comunale Vitaliano Ottomini impiegò quasi tutta la mattina per consegnare certe buste.
Erano cinque in tutto, cosa da poco, ma l’Ottomini era esperto nel prolungare a dismisura qualsivoglia incarico, così da poter abbandonare la sua scrivania e farvi ritorno giusto in tempo per staccare e andare a pranzo.
Le buste contenevano gli avvisi di convocazione per i componenti della giunta amministrativa, invitati a riunirsi per il giorno 24, alle ore diciannove.
«Il sindaco si pregerà di porgere gli auguri di Natale e felice Anno Nuovo ai suoi collaboratori presso il suo studio», era scritto sul bigliettino con le insegne del comune.
In basso a destra, l’autografo del sindaco Attilio Fumagalli, uno svolazzo illeggibile.
Il primo a essere raggiunto dall’invito fu il pizzicagnolo Amelio Stoppani. In seno alla giunta si occupava di problemi inerenti alla viabilità, altisonante carica che in pratica si esauriva nell’attendere al decoro di strade e contrade e alla manutenzione delle mulattiere. Fu la moglie Onorina, scoliotica sin dalla più tenera età, a dirglielo dopo aver ricevuto la busta dall’Ottomini e averla aperta senza tener conto del destinatario.
Sulle prime lo Stoppani non comprese bene. Aveva appena tagliato e annusato una forma di grana ricevuta un paio di giorni prima ed era ancora inebriato del suo profumo.
L’Onorina dovette ripetersi e solo allora l’uomo la guardò, il viso che cominciava a chiazzarsi per la stizza, piccole macchie rossastre come certi formaggi invecchiati che acquistava da casari della zona.
«Il 24, alle sette di sera?» chiese poi.
«Te l’ho appena detto, e comunque è scritto qui», rispose la moglie allungandogli il biglietto.
L’uomo lo prese e nemmeno lo guardò. Ne fece quattro pezzi e se li buttò alle spalle.
Tanto in lista per le elezioni quanto in giunta era entrato contro la sua volontà. Ma la moglie aveva così insistito per l’onore che sarebbe ricaduto sulla famiglia che, preso da sfinimento, pur di metterla a tacere s’era visto costretto ad accettare. Il conteggio finale dei voti tra l’altro ne aveva sancito un’insospettabile popolarità, probabile frutto del buon umore che dispensava in bottega con le massaie e all’osteria con gli amici.
«Bon», disse, «invito non pervenuto.»
«Amelio!» lo riprese la moglie.
«Amelio cosa?» fece lui.
Con tutto il lavoro che c’era la Vigilia doveva smazzarsi un’altra specie di giunta?
Non erano bastate tutte quelle che aveva dovuto sopportare in quegli ultimi mesi?
E poi, per dirla tutta, cos’era quella storia di fare gli auguri?
Se proprio il sindaco ci teneva, poteva pensarci prima, mica aspettare la sera della Vigilia.