So che un giorno tornerai è un libro scritto da Luca Bianchini, pubblicato a ottobre 2018. Un romanzo sulla ricerca delle nostre origini, la scoperta di chi siamo e la magia degli amori che sanno aspettare. Ci porta a conoscere i sentimenti più nascosti in ognuno di noi, per scoprire che non hanno confini.
“Alla fine, ognuno di noi s’innamora di chi ci guarda per un attimo e poi ci sfugge per sempre.”
Angela non ha ancora vent’anni quando diventa madre, una mattina a Trieste alla fine degli anni Sessanta. Pasquale, il suo grande amore, è un “jeansinaro” calabrese, un mercante di jeans, affascinante e già sposato. Lui le ha fatto una promessa: “Se sarà maschio, lo riconoscerò”. Angela fa tutti gli scongiuri del caso ma nasce una femmina: Emma.
“Angela restò immobile, come se il suo parto non fosse finito ma stesse per ricominciare di nuovo. Era femmina, aveva sentito bene. E pronunciò il nome che aveva sempre pensato.
«Giorgio.»
«Guardi che è una femmina, signora, non si può chiamare Giorgio.»”
Pasquale fugge immediatamente dalle sue responsabilità, lasciando Angela crescere la bambina da sola insieme alla sua famiglia numerosa e sgangherata. I Pipan sono capitanati da un nonno che rimpiange il dominio austriaco, una nonna che prepara le zuppe e quattro zii: uno serio, un playboy e due gemelli diversi che si alternano a fare da baby sitter a Emma.
“Era sua figlia, e ciò che le rimaneva di Pasquale, che le aveva fatto conoscere cosa poteva essere la felicità. «Se è un maschio lo riconosco» le aveva detto senza esitazioni, come se puntasse alla roulette. E lei si era aggrappata a quelle parole per mesi, guardando la pallina roteare, evitando i dolci e facendo il giro delle sette chiese.”
Lei sarà la figlia di tutti e di nessuno e crescerà così, libera e anticonformista, come la Trieste in cui vive, in quella terra di confine tra cielo e mare, Italia e Jugoslavia. Fino al giorno in cui deciderà di mettersi sulle tracce di suo padre, e per lui questa sarà l’occasione per rivedere Angela, che non ha mai dimenticato.
“La piccola Emma tornò a casa dopo pochi giorni con un nome ma senza un cognome. Non che all’epoca le potesse interessare granché, essendo le sue priorità mangiare, dormire, e piangere per mangiare.”
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Non tutti abbiamo il nome che vorremmo.
C’è chi eredita quello del nonno, chi sogna quello del padre, chi si chiama Diego Armando come Maradona o Sonny come il protagonista di “Miami Vice”. Chi si ritrova il nome che non sai come si scrive o quello che non ha nessuno, e chi quello che hanno in troppi.
Ma non era mai capitato ciò che accadde a una piccola appena nata a Trieste, una mattina di dicembre alla fine degli anni Sessanta, il giorno prima di San Nicolò, il vero Babbo Natale per i bambini della città. Mentre tutti finivano di impacchettare gli ultimi regali, il suo batuffolo di capelli neri che la bora non era riuscita ancora a scompigliare faceva capolino all’Ospedale Maggiore.
Una finestra del piano sbatté così forte che sembrò sul punto di rompersi. Quella neonata aveva appena visto il mondo e il mondo l’aveva accolta con la tempesta, malgrado il sorriso dell’ostetrica che non si abituava mai a quel momento irripetibile, e la porgeva dolcemente a sua madre.
«Signora, è femmina… come la vuole chiamare?»