Una di luna è un romanzo scritto da Andrea De Carlo, pubblicato nel settembre 2018, narra del delicato rapporto di una donna con la figura paterna, facendo affiorare aspettative e delusioni, slanci e rifiuti, tenerezze e rabbie, frustrazioni e magie.
“Una notte che mio padre era tornato a casa dal ristorante ed era entrato nella mia stanza forse per controllare se dormivo, ero saltata su nel letto e gli avevo detto “Il sole fa rumore, ma la Luna è silenziosa”. Chissà se lui se lo ricorda; io mi ricordo che invece di dirmi che era una stupidaggine da bambina aveva annuito e mi aveva guardata con una strana soddisfazione negli occhi.”
Margherita Malventi si dedica a una cucina intima e riflessiva nel suo piccolo ristorante a Venezia, nel sestiere di Castello, ed è convinta che la Luna le abbia salvato la vita più di una volta. Suo padre si chiama Achille, ha ottantasette anni, è alto un metro e cinquantaquattro, ed è stato uno dei più rinomati chef della città lagunare, finché non ha perso tutto a causa delle sue manie di grandezza.
È un uomo rabbioso, in guerra contro il mondo, ma l’invito a partecipare come ospite d’onore a Chef Test, popolarissimo programma televisivo di cucina, sembra offrirgli la possibilità di una rivalsa pubblica. Margherita decide di accompagnarlo a Milano, dove il programma viene registrato, con la speranza assai poco realistica che il viaggio possa dischiudere tra loro una comunicazione che non c’è mai stata.
“… ha guardato in alto, la coltre grigio-biancastra che nascondeva il cielo; ha fatto un gesto ad arco, ripetuto due, tre volte, un movimento delicato ma sicuro, senza esitazioni.
E poco alla volta la foschia si è dischiusa come una cortina, ed è apparsa la Luna. Piena di benevolenza e perplessità. Forse era solo una coincidenza incredibile tra il gesto di Jules e l’apertura nella foschia, però sta di fatto che un momento la Luna non c’era e un momento dopo era là, gialla nello squarcio di cielo nero, con i crateri visibili come se la guardassimo con un telescopio.
Poi la foschia si è richiusa, e la Luna è sparita di nuovo; io e Jules ci siamo guardati, e la strana resistenza magnetica che ci separava ha ceduto di colpo. Gli sono andata contro con ancora più slancio di come pensavo, corpo contro corpo, fronte contro fronte, labbra contro labbra …”
Le recensioni sono quasi tutte positive, qualcuno si aspettava qualcosa di più da questo breve romanzo, molti hanno trovato il dualismo che racconta molto profondo ed attuale, altri non hanno gradito il finale, ma tutti concordano sulla fantastica scrittura di De Carlo, quella non delude mai.
Dopo almeno un quarto d’ora che aspettavo
Dopo almeno un quarto d’ora che aspettavo sempre più nervosa sulla riva di pietra d’Istria smussata bianco-gialla subito a sinistra della fermata Ferrovia, la barca verde dei miei con mia madre al timone e mio padre seduto sulla panchetta centrale è finalmente arrivata, attraverso il traffico di vaporetti e lance e barche cariche di scatoloni e fusti di birra e cemento e spazzatura, nell’acqua smossa color giada.
Mia madre ha tolto il gas a cinque o sei metri dalla riva, e anche se la sua espressione era vaga come sempre ha fatto filare con precisione la barca tra i pali di legno. Mio padre è subito saltato in piedi, a gambe larghe per compensare l’ondeggiamento; si è aggiustato il cappotto blu, la sciarpa bianca. È alto un metro e cinquantaquattro, un uomo incredibilmente ostinato. Ha ottantasette anni, abruzzese di Pescocostanzo arrivato a Venezia sessant’anni fa, magro come uno stecco, capelli bianchi folti e dritti sulla testa, sopracciglia cespugliose bianche anche quelle, naso a becco che mentre crescevo ho sperato intensamente di non ereditare; pallido perché non gli piace l’aria aperta, pelle quasi trasparente alle tempie, occhi azzurri molto rapidi. Si chiama Achille, è fascista. Credo dipenda dal fatto che suo padre era sposato con un’altra donna quando ha incontrato mia nonna ed è scappato come un coniglio appena ha saputo di averla messa incinta, e che mia nonna ha dovuto metterlo in collegio a Ravenna quando aveva cinque anni per farlo crescere italiano, mentre lei andava a lavorare come cuoca per una ricca famiglia a Buenos Aires. Così mio padre ha dovuto inventarsi un super-padre con la faccia e la mascella prominente di Benito Mussolini, e aggrapparsi a un’ideologia di maschi finti forti, sconfitti dalla storia e pieni di rimostranze. Credo che sia anche stato un modo di compensare la sua statura ridotta, la sua delicatezza fisica, la sua sensibilità estrema, la sua propensione a buttarsi allo sbaraglio per poi sentirsi vittima di orribili ingiustizie. È da quando ero bambina che lo vedo rimbalzare tra atteggiamenti autoritari e ingenuità abissali, intuizioni, abbagli, scelte aggressive, cortesie d’altri tempi, successi clamorosi, errori catastrofici, eccessi di generosità, concessioni di fiducia alle persone più sbagliate, paranoie, commozioni, manie di grandezza, crolli, depressioni. Con lui ho dovuto fin da subito convivere con i sentimenti più opposti, le contraddizioni più faticose; mi ci è voluta tanta energia, per venire fuori intera.
“Siamo in ritardo” ho detto, nel tono più calmo che mi veniva. Ho preso la cima che mi ha lanciato mia madre, l’ho tirata per avvicinare la prua alla riva. Mia madre mi guardava con una delle sue espressioni ambivalenti, tra apprensione e distacco. La barca era parecchio scolorita, il motore rugginoso e sputacchiante, avevano entrambi un bisogno disperato di manutenzione.