Il gioco del suggeritore è un romanzo di Donato Carrisi, pubblicato nel 2018, il quarto thriller con protagonista Mila Vasquez. A dieci anni dal “Il suggeritore“, la sfida ricomincia. Un omicidio senza vittime. Un uomo senza identità. Un’indagine senza soluzioni. Il gioco non è mai finito.
“«Anche se è difficile da accettare, a volte vittime e carnefici si cercano. Perché hanno delle cose in comune: si somigliano senza saperlo.»
A ognuno di noi è destinato un assassino. Come con l’anima gemella, a volte lo incontriamo e a volte no.”
La chiamata al numero della polizia arriva verso sera da una fattoria isolata, a una quindicina di chilometri dalla città. A chiedere aiuto è la voce di una donna, spaventata. Ma sulla zona imperversa un violento temporale, e la prima pattuglia disponibile riesce a giungere soltanto ore dopo.
Troppo tardi.
Qualcosa di sconvolgente è successo, qualcosa che lascia gli investigatori senza alcuna risposta possibile – soltanto un enigma.
C’è un’unica persona in grado di svelare il messaggio celato dentro al male, ma quella persona non è più una poliziotta. Ha lasciato il suo lavoro di cacciatrice di persone scomparse e si è ritirata a vivere un’esistenza isolata in riva a un lago, con la sola compagnia della figlia Alice.
Tuttavia, quando viene chiamata direttamente in causa, Mila Vasquez non può sottrarsi. Perché questa indagine la riguarda da vicino. Più di quanto lei stessa creda.
Ed è così che comincia a prendere forma un disegno oscuro, fatto di incubi abilmente celati e di sfide continue. Il male cambia nome, cambia aspetto, si nasconde nelle pieghe fra il mondo reale e quello virtuale in cui ormai tutti trascorriamo gran parte della nostra vita, lasciando tracce digitali impossibili da cancellare.
È un gioco, ed è soltanto iniziato.
Perché lui è sempre un passo avanti.
La chiamata al numero della polizia fu registrata alle diciannove e quarantasette del 23 febbraio. Una voce di donna al cellulare chiedeva con tono concitato l’invio di una pattuglia presso una fattoria isolata, a una quindicina di chilometri dalla città.
In quel momento, sulla zona imperversava un violento temporale.
Alla domanda dell’operatore sul motivo dell’emergenza, la donna rispose che un uomo si era introdotto nella proprietà. Stazionava all’esterno, sotto la pioggia, al buio. Il marito era uscito per convincerlo ad andarsene, ma l’intruso non voleva saperne.
Se ne stava fermo a fissare la casa, muto.
La donna non poté fornire una descrizione dello sconosciuto perché da dove si trovava, anche a causa dello schermo di acqua scrosciante, riusciva a malapena a distinguerlo nel bagliore dei fulmini. Riferì che era arrivato a bordo di una vecchia station-wagon verde, e concluse dicendo che le sue due bambine erano spaventate.
L’operatore prese nota dell’indirizzo e assicurò che avrebbe mandato qualcuno a controllare ma informò la donna che, a causa delle avverse condizioni meteo, erano subissati di chiamate di soccorso per incidenti stradali e allagamenti. Perciò avrebbero dovuto pazientare.
La prima autopattuglia disponibile si liberò soltanto alle cinque del mattino successivo – ben nove ore dopo. Gli agenti impiegarono parecchio a raggiungere la fattoria, anche perché nella notte era tracimato un torrente che aveva invaso la carreggiata in più punti.
La scena che si presentò alla coppia di poliziotti, poco dopo l’alba, era tranquilla.
Una tipica casa colonica in legno dipinta di bianco con accanto un silos per la conservazione delle mele. Un gigantesco sicomoro proiettava la propria ombra sul piazzale. Un dondolo sotto la veranda e due bici rosa identiche alloggiate accanto alla rimessa degli attrezzi. Sulla cassetta della posta, pitturata di rosso vermiglio, c’era scritto FAMIGLIA ANDERSON.
Nulla che facesse presagire qualcosa di brutto. Tranne forse il silenzio, interrotto solo dall’abbaiare incessante di un cane meticcio, legato con un lungo guinzaglio a una cuccia.
Gli agenti chiamarono a gran voce gli abitanti, ma non ottennero risposta. Dato che in casa non c’era nessuno, pensarono che non ci fosse più bisogno di loro. Solo per scrupolo, prima di fare inversione e andarsene, uno dei due salì i gradini del portico per bussare alla porta d’ingresso. Si accorse che era solo accostata. Sbirciando l’interno, notò un gran disordine.
Dopo aver chiesto per radio l’autorizzazione della centrale, i poliziotti entrarono per controllare.
Trovarono tavoli e sedie rovesciati, suppellettili infrante e un tappeto di schegge di vetro per terra. Ma la situazione al piano superiore era anche peggio.
C’era sangue ovunque.
Il liquido rossastro, ormai rappreso, impregnava cuscini e lenzuola nelle camere da letto. Gli schizzi imbrattavano oggetti di vita quotidiana – una pantofola, una spazzola, il volto delle bambole nella stanza delle bambine. E c’erano lunghe scie sul pavimento e impronte di mani che strisciavano sui muri, segni di un disperato tentativo di fuga. Il teatro di una strage. Ma fu ciò che non trovarono a turbare particolarmente gli agenti.
Mancavano i corpi.