Carnaio è un romanzo scritto da Giulio Cavalli, pubblicato nel 2018 da Fandango. Un romanzo distopico, inquietante, grottesco, attuale e necessario. Contro le onde che nascono dagli eventi, contro l’indifferenza.
“Questo non è un cadavere del nostro mondo, signor
commissario.” Sembrò a tutti una frase rotonda, perfetta.
Trama di “Carnaio”
Giovanni Ventimiglia è un pescatore, da tutta la vita raccoglie nelle sue reti acciughe e granchi, anche se negli ultimi anni il mare è diventato avaro e sulla sua piccola nave non ha più un equipaggio. Il pesce lo vende nel mercato di DF, un paesino aggrappato alla costa come tanti, con un parroco che fa la predica ma va a puttane, un sindaco che è padre di sindaco, un’emittente locale che scalda i cuori delle casalinghe con il suo conduttore brizzolato. Ma un giorno di marzo Giovanni attraccando al pontile trova un cadavere, un uomo che in ammollo dev’essere stato per giorni, un ragazzo non di quelle parti, forse dell’Est o del Sud, uno di colore comunque. E dopo di lui, i ritrovamenti di cadaveri sbiaditi dall’acqua, tutti giovani, tutti neri si susseguono, senza che le autorità locali riescano a trovare un filo, cumuli di cadaveri da seppellire, identificare, gestire. E da DF chiedono aiuto, ma da Roma prendono tempo, impongono accertamenti, tanto che, per non venire sommersi, i cittadini saranno costretti a escogitare un sistema per affrontare l’emergenza, e poi nel tempo trasformarla in profitto. Con uno sguardo che ricorda Saramago e Bolaño, Carnaio è un incubo di carne e soldi, la profezia di un mondo prossimo, in cui l’ultimo passo verso l’abisso è già alle nostre spalle.
“Il primo cadavere lo ritrovarono impigliato tra gli scogli, quelli bassi, all’attaccatura del pontile. Indossava una camicia a quadrettoni rossi e blu tutta sbordata e allacciata solo negli ultimi due bottoni in fondo, e poi dei pantaloni corti, da calciatore, forse di qualche squadra importante, resi trasparenti e velini dal caldo, dal sale, dal sole. Niente scarpe.”
Recensione
Non è stata una lettura facile e parlarne è difficile, sono stata male, mi ha disturbata, questo era il suo scopo, e parlarne è doveroso. La narrazione avviene attraverso vari personaggi, in modo che la vicenda venga raccontata dai vari punti di vista. La storia ha un crescendo sempre più paradossale, alimentato da paura, da censura e da una dittatura subdola. L’umanità, intesa come sentimento di comprensione e solidarietà umana, si sfalda, l’empatia scompare del tutto e ci si adegua. Pochi resistono cercando di non essere indifferenti, di indignarsi, di credere ancora di poter scegliere tra bene e male, ma sono davvero un minuscolo puntino luminoso di speranza in un buio vuoto. Nessuno si salva, tutti finiscono nel carnaio.
“Chi non si adatta diventa straniero. Chi è straniero diventa un impiccio, anche se un’ora prima era tua moglie, tuo fratello, tua figlia.”
Il libro mi è rimasto dentro e riemerge ogni volta che sento politici, giornalisti e persone comuni parlare degli immigrati (difficilmente dell’immigrazione). La parola “immigrato” si è snaturata, non ha più significato di “persona che si trasferisce in un altro paese”, la “persona” non è inclusa nel concetto, “immigrato” è divenuta una parola che indica qualcosa di negativo, pericolo e paura. L’immigrato è divenuto un capro espiatorio per i nostri fallimenti e per le nostre frustrazioni, è divenuto un qualcosa di astratto, è divenuto un qualcosa che si può sfruttare ed usare, cosa che non si può fare con le persone, sarebbe immorale! E allora li prendiamo, li spostiamo, li mandiamo, li usiamo. “della carne che ci porta la marea non si butta via niente. Niente. Come il maiale.”
“La barca mi ha insegnato che non è vero che domani andrà meglio, no, domani potrebbe piovere, potrebbe alzarsi il vento di Ponente, i pesci potrebbero decidere di schifare l’esca che si sono sempre mangiati, loro e i loro padri e i loro nonni, potrebbe sbiellarsi il motore, potrebbe incagliarsi la rete e magari ti tocca anche tagliare l’ancora. Tu sei un pessimista cronico, mi dice Maria, sei uno di quelli che vede il nero e poi ovvio che il nero ti arriva.”
“Perché quello che voglio è non diventare come loro, più di tutto il resto.
Con tutte le mie forze. Mi sforzo di tenere a memoria il giusto e lo sbagliato, il tollerabile e l’intollerabile, la normalità e la ferocia. Come da bambina, di fronte alla voglia di un’avventura che mi scaricava adrenalina nello stomaco, mi fermavo sul burrone a pensare cosa mi avresti detto tu, cosa avresti voluto tu, per misurare la giustizia, allo stesso modo oggi ho bisogno di un termometro per misurare lo schifo, non sentirmi pazza, essere confortata anche se
sola.”
«Ai soccorsi, arrivati con poca voglia di soccorrere, DF si presentò come una palla di vetro con neve, quelle dei mercatini dove gli ambulanti portano guanti tagliati sulle dita. Le palle di vetro provocano la felicità più meravigliosa e più breve che si possa provare in natura, il tempo di uno scrollo, i più resistenti ne fanno due, e poi finiscono nel comò per almeno tutta una generazione, vengono ritrovate quando sono morti da un pezzo sia gli acquirenti che gli ambulanti e un bambino la scrolla di nuovo, una volta, massimo due. DF era cosi. Senza scrollo. Con le mosche al posto della neve.»