Canne al vento, un romanzo scritto da Grazia Deledda, pubblicato nel 1913, ebbe molto successo sia dalla parte della critica che dal pubblico, infatti nel 1926 riceve il Premio Nobel per la Letteratura. Racconta della Sardegna e dei mali secolari dell’isola, della Baronia, di quella nobiltà terriera ormai decaduta, che non sa adattarsi alla società che cambia, nella quale hanno buon gioco commercianti e usurai.
“… La luna saliva davanti a lui, e le voci della sera avvertivano l’uomo che la sua giornata era finita. Era il grido cadenzato del cuculo, il zirlio dei grilli precoci, qualche gemito d’uccello; era il sospiro delle canne e la voce sempre più chiara del fiume: ma era soprattutto un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla terra stessa; sì, la giornata dell’uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti. I fantasmi degli antichi Baroni scendevano dalle rovine del castello sopra il paese di Galte, su, all’orizzonte …”
Il romanzo è ambientato a Galte, un villaggio sardo, narra le vicende della famiglia Pintor, di origine nobile, composta, oltre ai genitori, da quattro figlie: Ruth, Ester, Noemi e Lia. Le ragazze sono costrette a sottostare alla volontà di un padre prepotente. Solo Lia si ribella a questa condizione e trasgredisce le regole imposte dal padre “Don Zame”, un uomo cupo e violento, per “prender parte alla festa della vita”. Così fugge dalla Sardegna e va a Civitavecchia. Don Zame impazzisce per il disonore: “Un’ombra di morte gravò sulla casa: mai nel paese era accaduto uno scandalo eguale; mai una fanciulla nobile e beneducata come Lia era fuggita così”. Tenta di inseguire la figlia, ma viene trovato misteriosamente morto sul ponte all’uscita dal paese. Lia si sposa e ha un figlio, Giacinto che, rimasto orfano, si presenta in casa Pintor.
“Ogni volta che se ne allontanava lo guardava così, tenero e melanconico, appunto come un uccello che emigra: sentiva di lasciar lassù la parte migliore di se stesso, la forza che dà la solitudine, il distacco dal mondo; e andando su per lo stradone attraverso la brughiera, i giuncheti, i bassi ontani lungo il fiume, gli sembrava di essere un pellegrino, con la piccola bisaccia di lana sulle spalle e un bastone di sambuco in mano, diretto verso un luogo di penitenza: il mondo.”
Le tre sorelle Pintor, dopo la morte misteriosa di Don Zame, sono costrette a vivere in povertà e l’unico aiuto lo trovano nel loro servo Efix, rassegnate ormai al declino della loro casa e della loro giovinezza. Efix spera di trovare una soluzione definitiva, sogna il rifiorire della casa e della famiglia e quando arriva la lettera che annuncia l’arrivo di Giacinto in lui si accende una speranza, mentre Noemi non vuole ospitare il nipote, Ester é favorevole al suo arrivo, Ruth teme che Giacinto possa sconvolgere la loro vita. Efix, pieno di sensi di colpa, cerca di stabilire la calma promettendo di occuparsi lui di Giacinto, soluzione che si rivela un disastro.
“La vita passa e noi la lasciamo passare come l’acqua del fiume, e solo quando manca ci accorgiamo che manca.”
La metafora delle canne al vento sottolinea la precarietà dell’esistenza umana. “Siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento”.
L’autrice non fa differenza tra personaggi buoni o cattivi, ma li inserisce in un unico insieme, quello umano in balia del vento, unico vero protagonista. Racconta di un’isola pervasa di antichità e mito, che non è ancora pronta ad affrontare il nuovo che avanza e mescola umanità e tradizioni.
Non amo questo genere di trame e lo stile leggermente enfatico ha rallentato la lettura, risultata malinconica, ma il lettore viene ricompensato da una potenza descrittiva della natura sarda che è poesia.
Nel libro viene menzionato un dolce tipico della Sardegna, il gattò, trovate la ricetta qui.
“Anche don Predu andava laggiù. Dalla sua bisaccia a fiorami usciva l’odore del gattò che portava in regalo al Rettore suo amico, e il collo violetto di una damigiana di vino.”
Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l’argine primitivo da lui stesso costruito un po’ per volta a furia d’anni e di fatica, giù in fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall’alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca Collina dei Colombi.
Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d’acque nel crepuscolo, il poderetto che Efix considerava più suo che delle sue padrone: trent’anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben suo, e le siepi di fichi d’India che lo chiudono dall’alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume, gli sembrano i confini del mondo.
Il servo non guardava al di là del poderetto anche perché i terreni da una parte e dall’altra erano un tempo appartenuti alle sue padrone: perché ricordare il passato?
Rimpianto inutile. Meglio pensare all’avvenire e sperare nell’aiuto di Dio.
E Dio prometteva una buona annata, o per lo meno faceva ricoprir di fiori tutti i mandorli e i peschi della valle; e questa, fra due file di colline bianche, con lontananze cerule di monti ad occidente e di mare ad oriente, coperta di vegetazione primaverile, d’acque, di macchie, di fiori, dava l’idea di una culla gonfia di veli verdi, di nastri azzurri, col mormorìo del fiume monotono come quello di un bambino che s’addormentava.
Ma le giornate eran già troppo calde ed Efix pensava anche alle piogge torrenziali che gonfiano il fiume senz’argini e lo fanno balzare come un mostro e distruggere ogni cosa: sperare, sì, ma non fidarsi anche; star vigili come le canne sopra il ciglione che ad ogni soffio di vento si battono l’una all’altra le foglie come per avvertirsi del pericolo.
Per questo aveva lavorato tutto il giorno e adesso, in attesa della notte, mentre per non perder tempo intesseva una stuoia di giunchi, pregava perché Dio rendesse valido il suo lavoro. Che cosa è un piccolo argine se Dio non lo rende, col suo volere, formidabile come una montagna? …
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