Il Premio letterario internazionale Tiziano Terzani è stato istituito nel 2004 dall’associazione culturale vicino/lontano, in collaborazione con la moglie, Angela Staude Terzani, e i figli Saskia e Folco del giornalista e scrittore fiorentino.
Il vincitore del Premio Terzani sarà annunciato in aprile e consegnato sabato 23 maggio, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, durante la serata-evento che è divenuta un appuntamento centrale del festival vicino/lontano, in programma a Udine dal 21 al 24 maggio.
La giuria, riunitasi a Firenze a casa Terzani, ha selezionato la cinquina finalista composta da:
Nessun amico se non le montagne. Prigioniero nell’isola di Manus di Behrouz Boochani (add editore).
2013, Ilam, Kurdistan iraniano. Dopo le intimidazioni e l’arresto di alcuni colleghi giornalisti, Behrouz Boochani raggiunge clandestinamente l’Indonesia. Sopravvissuto a un naufragio nel tentativo di arrivare in Australia, si ritrova esiliato in un’isola nel mezzo dell’oceano, nel centro di detenzione per immigrati irregolari di Manus Island in Papua Nuova Guinea. Qui Boochani inizia un’intensa campagna di denuncia della politica anti-migratoria australiana e delle umiliazioni cui vengono sottoposti i rifugiati: articoli, documentari e questo libro, digitato in persiano su un cellulare e mandato, di messaggio in messaggio, a Omid Tofighian che lo ha tradotto in inglese. “Nessun amico se non le montagne” racconta i terrificanti viaggi per mare, e la vita quotidiana nel carcere di Manus, nella sua banalità degradante e disumanizzante – la fame, il sole impietoso, le zanzare torturatrici, i bagni che non funzionano, le code per mangiare, per il telefono e per farsi curare. «Aspettare», scrive Boochani, «è uno strumento di tortura usato nelle segrete del tempo.» In uno stile che intreccia prosa e poesia, commento politico e mito, Boochani mette in scena un’umanità tragica e grottesca, ma anche generosa e resistente. Nel suo palcoscenico si muovono Nostra Signora Golshifteh, Il Primo Ministro, Il Gigante Gentile, La Mucca, il Ragazzo dagli Occhi azzurri, Il Pinguino, Il Profeta, Il Papà Del Bambino Di Pochi Mesi, Maysam la Puttana, Il Ragazzo Rohingya… Sullo sfondo, sempre presente, una natura magnifica e terribile, compagna e incubo dei prigionieri senza speranza sull’isola di Manus, in attesa che le loro vite riprendano.
Behrouz Boochani è nato a Ilam, il 23 luglio 1983) è un giornalista, poeta, documentarista e attivista per i diritti umani, fra i fondatori della rivista in lingua curda “Werya”, messa al bando dal regime.
È perseguitato quale dissidente politico dalla teocrazia sciita dell’Iran. Ha tentato di entrare in Australia per chiedere asilo politico e le autorità australiane, in virtù delle severe norme sull’immigrazione, lo hanno confinato in un campo profughi sull’isola di Manus, dove è detenuto da cinque anni.Nel 2019 ha vinto l’australiano Premio Victorian per il suo romanzo autobiografico dal titolo No Friend But the Mountains: Writing from Manus Prison. Non essendo dotato di computer o carta ove scrivere, ha scritto il romanzo inviando una lunga serie di messaggi in lingua farsi a Omid Tofighian, un amico che le ha tradotte in inglese.
La frontiera. Viaggio intorno alla Russia di Erika Fatland (Marsilio).
Cosa significa essere il vicino della più grande nazione del mondo? Da sempre attratta dalla cultura e dall’anima russe, Erika Fatland ha dedicato anni a cercare di capire quella terra smisuratamente vasta. Dopo aver sognato di camminare su una grande carta geografica, muovendosi lungo il sinuoso confine russo, decide di tentare un nuovo approccio: è possibile capire un paese e un popolo osservandoli dall’esterno? Comincia così la pianificazione di un itinerario favoloso che, dalla Corea del Nord alla Norvegia, abbraccia l’intera superficie di uno dei giganti della politica mondiale. Partendo da Pyongyang e spostandosi verso ovest a bordo dei mezzi più disparati – aerei a turboelica, treni, cavalli, traghetti, autobus e persino renne e kayak –, l’autrice percorre l’interminabile linea di confine tra la Russia e i paesi vicini. Dall’Oriente all’Asia centrale, e poi attraverso il mar Caspio fino al Caucaso. E ancora, al di là del mar Nero, l’Ucraina divisa dalla guerra, e poi l’Est dell’Europa e i Paesi baltici, fino a Grense Jakobselv, nell’estremo Nord. Da qui, l’esplorazione riprende lungo il gelido Passaggio a nord-est: dalla Cˇukotka, dove l’Asia finisce, fino a Murmansk. Per 259 giorni, Erika Fatland ha raccolto testimonianze e immagini, componendo un ritratto affascinante e vivido di paesaggi, culture, società e stati le cui differenze sbiadiscono di fronte all’unico elemento che li accomuna: l’essere confinanti della Russia. E le storie, ora pittoresche, ora tragiche, spesso incredibili, che le persone incontrate durante il cammino tra due continenti raccontano, trovano tutte una spiegazione in questa fondamentale condizione geopolitica, fornendo milioni di risposte. Una per ogni individuo che vive lungo la frontiera più lunga del mondo.
Erika Fatland è scrittrice e antropologa, vive a Oslo. Nel 2015 è stata nominata tra i migliori autori norvegesi under 35, vincendo il premio per la migliore non-fiction dell’anno, e nel 2016 Literary Europe Live l’ha selezionata tra le dieci voci emergenti più interessanti d’Europa. Collabora con diverse testate e si è imposta sulla scena culturale internazionale con Sovietistan, premio dei librai in Norvegia, tradotto con successo in tredici paesi. La frontiera è stato selezionato tra i dieci migliori libri di non-fiction pubblicati in Scandinavia dal 2000 e nel 2018 ha vinto l’ambito premio dei bookblogger in Norvegia.
Il naufragio delle civiltà di Amin Maalouf (La nave di Teseo).
Amin Maalouf ha il potere di proporre intuizioni esatte quanto predizioni, indovinando i grandi cambiamenti della storia e della società molto prima che affiorino alla coscienza comune. In questo libro, con la lucidità cui ci ha da tempo abituati, spiega perché si sia arrivati alle soglie di un naufragio globale, che riguarda tutte le civiltà. L’America, per quanto resti una superpotenza, è sul punto di perdere ogni credibilità morale. L’Europa, che aveva promesso al suo popolo e a tutto il mondo il progetto più ambizioso e rassicurante della nostra epoca, sta per smembrarsi. Il mondo arabo-musulmano versa in una crisi profonda che lascia la sua popolazione nella disperazione e con ripercussioni spaventose ovunque. Grandi nazioni emergenti o in via di rinascita, come la Cina, l’India e la Russia, fanno irruzione sulla scena mondiale in un’atmosfera deleteria in cui vige la legge del più forte. Una nuova corsa agli armamenti sembra inevitabile, senza contare le minacce, gravissime, che pesano sul nostro pianeta – il clima, l’ambiente, la salute – e alle quali non potremo far fronte senza quella solidarietà globale che, appunto, ci manca. Da tanti anni, Amin Maalouf osserva e percorre il mondo, da Beirut a Teheran, dal Vietnam a Parigi. In questo libro, mescolando cronaca e riflessione, il grande romanziere e saggista racconta gli avvenimenti di cui si è trovato ad essere testimone privilegiato e, al tempo stesso, porta avanti una riflessione acutissima sulla storia e il destino dell’umanità.
Amin Maalouf è nato a Beirut, il 25 febbraio 1949, è un giornalista e scrittore libanese naturalizzato francese. Nel 1976 diviene collaboratore del quotidiano libanese Al-Nahar, ma lascia l’incarico per il trasferimento in Francia, dovuto alla guerra civile che vede coinvolto il popolo del Libano. A Parigi, dove si stabilisce a vivere e lavorare, diviene redattore capo di Jeune Afrique. Dagli anni ottanta inizia l’attività di scrittore, dando alle stampe opere che ricevono numerosi riconoscimenti. Nel 1993 ha vinto il premio Goncourt per il romanzo Col fucile del console d’Inghilterra, nel 2004 ha vinto il Premio Mediterraneo con Origines, nel 2010 ha vinto il premio Principe delle Asturie per la letteratura e nel 2019 il Premio Aujourd’hui con Il naufragio delle civiltà. Dal 2011 fa parte dell’Académie française.
Io Khaled vendo uomini e sono innocente di Francesca Mannocchi (Einaudi).
«Ci chiamano mercanti della morte, immigrazione clandestina, la chiamano. Io sono la sola cosa legale di questo Paese. Prendo ciò che è mio, pago a tutti la loro parte. E anche il mare, anche il mare si tiene una parte della mia mercanzia. Mi chiamo Khaled, il mio nome significa immortale. Mi chiamo Khaled e sono un trafficante». Khaled è libico, ha poco più di trent’anni, ha partecipato alla rivoluzione per deporre Gheddafi, ma la rivoluzione lo ha tradito. Così lui, che voleva fare l’ingegnere e costruire uno Stato nuovo, è diventato invece un anello della catena che gestisce il traffico di persone. Organizza le traversate del Mediterraneo, smista donne, uomini e bambini dai confini del Sud fino ai centri di detenzione: le carceri legali e quelle illegali, in cui i trafficanti rinchiudono i migranti in attesa delle partenze, e li torturano, stuprano, ricattano le loro famiglie. Khaled assiste, a volte partecipa. Lo fa per soldi, eppure non si sente un criminale. Perché abita un Paese dove sembra non esserci alternativa al malaffare. Francesca Mannocchi, giornalista e documentarista che da molti anni si occupa di migrazioni e zone di conflitto, ci restituisce la sua voce. Le sue parole raccontano un mondo in cui la demarcazione tra il bene e il male si assottiglia.
Francesca Mannocchi è una giornalista freelance, si occupa di migrazioni e conflitti e collabora con numerose testate italiane e internazionali. Ha realizzato reportage da Iraq, Libia, Libano, Siria, Tunisia, Egitto e Afghanistan. Per le sue inchieste ha vinto, tra gli altri, il Premio Giustolisi e, nel 2016, il prestigioso Premiolino. Ha diretto con il fotografo Alessio Romenzi il documentario Isis, Tomorrow, presentato alla 75a Mostra internazionale del Cinema di Venezia.
Come sfasciare un paese in sette mosse. La via che porta dal populismo alla dittatura di Ece Temelkuran (Bollati Boringhieri).
Ece Temelkuran è una delle voci politiche europee più influenti del momento. Turca, vive in esilio dopo aver visto il suo paese sgretolarsi sotto l’onda d’urto del regime sanguinario di Erdogan. Da questa sua traumatica esperienza ha deciso di partire per denunciare in che modo una nazione possa, in breve tempo, scivolare nel baratro della dittatura. I passaggi salienti che hanno condotto la Turchia al suo deprecabile e sanguinoso stato attuale sono ben riconoscibili in tutto il mondo e sono una costante della politica contemporanea in moltissime nazioni, compresa la nostra. Le «mosse» per sfasciare un paese sono le stesse ovunque. 1. Crea un movimento (si badi bene, non un partito, ma un movimento, al limite una lega); 2. Disgrega la logica, spargi il terrore nella comunicazione; 3. Abolisci la vergogna: essere immorali è «figo» nel mondo della post-verità; 4. Smantella i meccanismi giudiziari e politici; 5. Progetta i tuoi cittadini e le tue cittadine ideali; 6. Lascia che ridano dell’orrore; 7. Costruisci il tuo paese. Dove siamo arrivati in Italia? Forse al punto 4? Siamo già al 5? A che punto è la Gran Bretagna della Brexit e di Nigel Farage? E la Russia di Putin? L’Ungheria di Orbán? Gli Stati Uniti di Trump? Perché una cosa si comprende amaramente bene, leggendo queste pagine: il percorso è sempre lo stesso, inizia senza allarmare, ma poi procede sempre, inesorabile, verso il punto nel quale ci si accorge che ormai la democrazia è svanita. I populisti, in crescita in tutto il mondo, fanno più o meno gli stessi discorsi ovunque. Li fanno a nome delle «persone perbene», del «popolo», sottintendendo così che chi non li appoggia non fa davvero parte del popolo, quindi è un «nemico interno». “Come sfasciare un paese in sette mosse” è un appello al mondo: fate attenzione – ci dice Temelkuran – il populismo e il nazionalismo non marciano trionfalmente verso il governo, ci strisciano dentro di nascosto. Bisogna essere vigili più che mai o ce li ritroveremo in casa senza accorgercene fino al punto d’arrivo finale: la dittatura.
Ece Temelkuran è nata a Izmir, 22 luglio 1973, è un giornalista e scrittrice turca. È stata editorialista di Milliyet (2000–2009) e Habertürk (2009 – gennaio 2012) e presentatrice di Habertürk TV (2010–2011). È stata licenziata da Habertürk dopo aver scritto articoli critici nei confronti del governo, in particolare la sua gestione del massacro di Uludere, quello dei curdi al confine tra Turchia e Iraq, del dicembre 2011. I suoi articoli sono stati tradotti e ripresi dalle più autorevoli testate internazionali, dal Guardian al New York Times. Ora vive in esilio in Croazia. Ha pubblicato 12 libri.