Come il mare in un bicchiere è un libro scritto da Chiara Gamberale, pubblicato a giugno 2020. Una testimonianza che è un urlo e una carezza. Pagine in cui quel disagio diventa, alla luce particolare della pandemia, la chiave per schiudere le fragilità e le risorse di ognuno di noi. Perché quel metro di distanza dagli altri, sia quando si infrange sia quando si rispetta, è comunque “un potere nelle nostre mani”.
“L’intenzione di questo mio breve libro, che preferirei chiamare quaderno, non è tediarvi con il diario della mia quarantena, ognuno ha il suo ed è quello il più prezioso. La mia intenzione è arrivare a riflettere insieme su un protocollo di autodifesa psicologica ed emotiva che questa incredibile tragedia ci potrebbe suggerire. Non voglio parlare del coronavirus alla luce di un certo tipo di disagio: ma voglio parlare di un certo tipo di disagio alla luce del coronavirus. E per farlo devo passare inevitabilmente per i fatti e per le storie delle persone che mi hanno ispirata.”
Ci sono persone con un desiderio così forte di assoluto, che si sentono nel corpo come l’immensità del mare dentro a un bicchiere. Ma sanno che quel bicchiere, piccolo fino al ridicolo per il suo compito impossibile, è l’unica occasione per incontrare gli altri, perché qualcuno possa avvicinare le labbra e bere. Persone che di quel limite però continuano a essere insofferenti, a stare male al punto di diventare prigioniere della propria testa. Persone Dentro di Testa, come scrive Chiara Gamberale – “non ho mai sopportato che delle persone con un certo tipo di problemi si dica: fuori di testa”. Persone fondamentalmente smarrite, come sente di essere lei e quegli amici che soprannomina ‘Gli Animali dell’Arca Senza Noè’. Che quando il mondo si è chiuso in casa, contrariamente a chi di solito è capace di vivere, si sono dimostrate fin troppo capaci, senza il peso del Là Fuori, di sopportare questa quarantena. “A che cosa ci riferiamo, quando diciamo: io? A tutto quello che prescinde dal Là Fuori o a tutto quello che lo prevede?”
“Senza più abbracci, in questi mesi ci sono rimaste solo le parole.
Parole, parole parole.
Quante parole.
Le parole in corsivo che scandiscono questa mia riflessione sono state pescate dagli oceani di quelle da cui tutti noi, nel nostro isolamento, ci siamo sentiti confortati, irritati, presi in giro, baciati, riempiti, svuotati.
Slogan che si sono rivelati grotteschi, discorsi che si sono rivelati profetici.”
Non è un’ifluenza.
Sono le diciotto, ed eccomi davanti al portone del dottor R., ancora una volta.
Era da sette anni che non mi capitava, è da quando ne ho dodici che può capitarmi.
Di perdere il filo del senso e i contorni che separano me dal resto del mondo – la sensazione che “dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica”, confidava Sylvia Plath ai suoi diari. “E mi domandi perché mai si tace / l’anima mia, senza versarsi in grembo / alla notte che sogna? / Colma di me traboccherebbe tutta / a spegnere le stelle”, scriveva Rilke. La smarginatura, la chiama Lila nell’Amica geniale di Elena Ferrante. Qualcosa insomma che, se arriva lei, non ci sei più tu.
E di colpo non c’è più nemmeno il tempo, sono sempre le due di notte.
Nei miei romanzi ho scritto spesso d’amore, ben consapevole che l’amore è una semplificazione. Ma le relazioni fra le persone mi sono sempre sembrate la metafora migliore di quella lotta tutta interiore a cui, se rischi di smarginare, dedicherai la tua intera esistenza perché a fine giornata la voglia di vivere vinca almeno per un punto sulla sensazione di non saperlo fare.
Scrivere, sicuramente, mi ha aiutata molto nell’addomesticare i mostri. Anche l’amore mi ha aiutata. E crescere, nonostante l’abbia fatto mio malgrado, mi ha permesso di realizzare che, certo, posso cadere sempre e da un momento all’altro, ma non devo confondermi tutta con il rischio di quel precipizio. Tentazione che si può tenere a bada quando una giornata va più o meno bene, ma a cui è immediato cedere appena una giornata si sveglia prima di te e tu apri gli occhi e avverti solo minacce, là dove fino a ieri c’era il lavandino del bagno, la tazza per la colazione, una finestra.
Un mito vuole che il dolore ispiri chi scrive: nel mio caso non è così, non è mai stato così. Almeno per quanto riguarda questo dolore – che poi dolore esattamente non è. Gli effetti collaterali delle medicine che ho dovuto prendere e gli odori dei posti dove, nei momenti più duri, sono stata costretta a rifugiarmi, sono anzi gli attentati più pericolosi che la mia ispirazione ha ricevuto. Perché è impossibile scrivere, quando si finisce tutti dentro. Dentro, per l’appunto: non ho mai sopportato che delle persone con un certo tipo di problemi si dica, fuori di testa. Semmai è il contrario. Stare male significa essere prigionieri della propria testa, barricati in un bunker dove forse speravamo di difenderci da una qualche guerra e invece ci ritroviamo nel focolaio più pericoloso di un’altra guerra, senza possibilità di tregua.
Persone semmai dentro di testa, quindi, quelle che smarginano.